Pensate a quello che stiamo vivendo ora, nelle nostre amate e sicure case, ma senza internet e le normali possibilità di svago casalinghe, senza la compagnia dei nostri cari, aggiungeteci dei perfetti sconosciuti con cui condividere degli spazi ristretti, rinunciando giocoforza a qualsiasi intimità, moltiplicatelo per mesi e anni e avrete una seppur minima idea del vissuto dei detenuti nei luoghi di reclusione.

Limitiamoci a quello che, per ora, possiamo avere in comune con i detenuti, principalmente una limitazione della libertà di movimento. In molti parlano del restare a casa come se fosse scomodo ma semplice, in realtà non lo è affatto, fermo restando che è una cosa estremamente necessaria, in questo momento: va fatta. Anche solo lasciando stare le preoccupazioni economiche, stare a casa ha delle implicazioni mentali importanti e bisogna riconoscersele. Nei prossimi giorni la fatica psicologica delle limitazioni imposte si farà sentire sempre di più, è doveroso non negarla sin da adesso.

Personalmente è una settimana che esco solo per fare la spesa, ieri sera mi è successo un qualcosa di improvviso ed imprevedibile, sono dovuto uscire di notte sul mio balconcino, sentivo il bisogno di un contatto con l’aria e il mondo esterno, non esagero se dico che, se avessi deciso di non farlo, probabilmente non ci sarei riuscito. Si è trattato di un momento, ma di una intensità che mi ha scosso. Quanti di voi hanno provato o proveranno, nei prossimi giorni, qualcosa di simile? Le mura, anche se domestiche, rimangono delle mura.

Lavoro ormai da diverso tempo in carcere, ho dovuto giustamente fermare tutte le attività cliniche che sto portando avanti a causa dell’emergenza che stiamo vivendo, io e i detenuti con i quali svolgo i gruppi di terapia non abbiamo avuto modo di salutarci, di dirci quello che stava succedendo e di prenderne atto ed elaborare insieme il distacco obbligato, di farci coraggio reciproco rispetto alla continuità di quanto intrapreso, in certi frangenti, siamo tutti semplicemente esseri umani e i professionisti lo devono comprendere.

Quando apprendo la notizia delle sommosse in diversi carceri d’Italia, non posso non pensare a quei lunghi corridoi e a quelle lunghe attese, a quei tanti ostacoli a cui le case circondariali mi hanno abituato, non posso non pensare agli uomini che lì dentro ho visto e ho provato ad aiutare, alla loro rabbia.

Il sospetto di una regia dietro alle rivolte è forte, la magistratura indagherà, questo però non toglie assolutamente nulla alle condizioni carcerarie esistenti e che privano i detenuti del potersi considerare ancora persone. E’ facile, per chiunque, fare leva sul malcontento e il malessere dei detenuti perché è reale quanto le sbarre che li imprigionano, è urgente indagare e modificare ciò che lo crea.

Io non so se andrà tutto bene nel prossimo futuro, come molti sostengono in base a un pensiero magico che comprendo – ma che non faccio mio, perché preferisco ancorarmi saldamente alla realtà attuale con le sue mille incertezze. Non so come sarà l’Europa, il mondo dopo il Covid19: so che è giusto che chi sbaglia paghi ma è ancor più giusto garantire la dignità di ogni individuo a prescindere dai suoi comportamenti per quanto gravi, in ogni tempo e in ogni luogo. Non farlo significa non saper differenziare adeguatamente il nostro agire da quello che condanniamo.

Dell’emergenza umana, in corso da anni, in molti carceri, si parla troppo poco, a farlo è spesso chi vi lavora e non la società civile, il cui pensiero comune è spesso che se uno ci è finito dentro si vede che se lo meritava e non può cambiare. Io opero per il cambiamento delle persone e il loro cambiamento è anche il mio cambiamento. Se c’è una cosa che ho imparato è che ciò che può cambiare e far cambiare è la sofferenza, e in carcere la sofferenza è l’unica a girare libera per le celle senza restrizioni.

Che questa emergenza ci insegni a vedere oltre le nostre mura e le nostre certezze domestiche, questa la mia speranza.

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