Marize è una ragazza minuta dai capelli corvini. È seduta in un caffè alla moda di New Cairo, quartiere trendy della capitale egiziana. Il suo sguardo parla da solo: dallo scorso 7 febbraio, quando suo fratello Patrick Zaki è stato arrestato all’aeroporto cairota, le sue giornate sono diventate un incubo. “Quel giorno lo stavamo aspettando agli arrivi, ci ha telefonato mentre era ancora sull’aereo dopo essere atterrato. Poi ha richiamato e ci ha detto che qualcosa non andava” racconta. “Dalle 4 del mattino all’una di notte del giorno dopo abbiamo aspettato all’aeroporto, cercando di capire. Alla fine abbiamo scoperto che era stato preso in custodia dalla sicurezza nazionale e che non si trovava più là ma a Mansoura“. In quelle 21 ore, mentre scompariva dai radar senza poter contattare nessuno, Patrick è stato torturato dagli uomini dell’intelligence del Ministero dell’Interno.

Dopo aver cambiato due stazioni di polizia, quella di Mansoura e quella di Talkha, e essere passato dal carcere di Mansoura Patrick ora si trova nel penitenziario di Tora, sempre al Cairo, il più duro in Egitto, dove sono stati reclusi l’ex leader dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi, il foto giornalista Shawkan e dove stanno scontando la pena tantissimi attivisti politici. Un passaggio che fa diventare in maniera conclamata il suo caso politico. Il 7 marzo il tribunale deciderà se prolungare per il giovane studente egiziano la custodia cautelare di altri 15 giorni, come già avvenuto una prima volta il 22 febbraio. “Le accuse per noi sono spaventose, come è possibile, fino a ora non riusciamo a capire perché è successo questo, e perché proprio a lui” insiste la sorella.

Il caso di Zaki, che dallo scorso settembre studiava all’Università di Bologna, ha mobilitato l’opinione pubblica europea che ha collegato immediatamente la vicenda al caso di Giulio Regeni, lo studente di Fiumicello trovato morto il 3 febbraio del 2016 nella periferia del Cairo dopo essere scomparso nel nulla per 9 giorni. Le vicende sono diverse ma la cornice in cui si sono svolte è sempre la stessa: ossia la draconiana repressione del presidente egiziano Adel Fattah el-Sisi. Al Cairo, a poche centinaia di metri dalla storica piazza Tahrir, c’è la sede dell’EIPR, (Egyptian Initiative for Personal Rights), l’organizzazione dove Patrick lavorava. All’interno degli uffici ospitati in un grande appartemento stile liberty, gli attivisti studiano la strategia per liberarlo ma sono consci che non sarà facile. Il team legale ha sporto querela per le torture subite da Zaki e soprattutto sta cercando di fare chiarezza sui verbali di arresto, secondo i quali il giovane sarebbe stato arrestato a Mansoura l’8 febbraio e non all’aeroporto del Cairo il giorno precedente.

“Abbiamo chiesto alle autorità dell’aeroporto di fornirci filmati delle telecamere del 7 febbraio, e non quelle relative all’8 come viene riportato dai verbali della polizia”, spiega Hoda Nasrallah, l’avvocato a capo del team legale dell’EIPR. “Siamo andati a recuperare il fascicolo relativo al caso dai servizi di sicurezza nazionale, ma siamo riusciti ad avere solo il numero del caso, e non i contenuti dell’ordinanza. Speriamo di ottenerli non appena inizierà il processo davanti al tribunale”. Senza i documenti del caso è impossibile anche capire quali siano i post di Facebook sui quali si basano le accuse. Non è chiaro ancora se siano stati presi davvero dal profilo di Patrick o da un profilo fasullo. “In un paese che rispetta i diritti umani non importerebbe che cosa ha scritto sul suo profilo” spiega Gasser Abdel-Razek, presidente dell’EIPR. Ma in questo momento in Egitto basta la condivisione di un qualsiasi video di attualità per finire nel mirino e gli avvocati lo sanno. “Chiaramente Patrick è vittima dell’ennesimo giro di vite che è seguito alle proteste antigovernative di settembre” afferma un suo collega. “L’opinione pubblica europea ha reagito subito perché si sente colpevole di quello che è successo a Giulio Regeni e perché nessuno è mai stato punito“.

Disporre delle carte con cui la magistratura egiziana ha costruito le accuse è l’unico modo per poterle decostruire. Le autorità egiziane lo sanno e per questo tardano nella consegna dei faldoni. A Mansoura, cittadina a 150 chilometri dal Cairo i genitori del giovane studente si erano trasferiti in pianta stabile nella casa di famiglia per poter visitare loro figlio ma ora torneranno nella capitale. Per ora hanno deciso di non rilasciare più dichiarazioni sino alla prossima udienza fissata per il 7 marzo. Wael Ghally ha lavorato al caso nelle prime settimane prima di passare il testimone a un suo collega che collabora con gli altri 3 avvocati dell’EIPR. Dal suo ufficio al pianterreno di una strada soffocata da palazzi abusivi sostiene la campagna internazionale sperando che aiuti a fare pressioni sulla presidenza egiziana. Anche se tra alcuni attivisti si teme che il clamore suscitato dal caso possa invece portare il governo egiziano a essere ancora più duro. “Se si continua a tenere alta la pressione si potrebbe mirare alla grazia presidenziale” aggiunge. Il braccio di ferro tra gli avvocati e la magistratura egiziana continua, ma come spiega Hoda Nasrallah “a livello legale non ci sono motivi per cui Zaki debba essere tenuto in custodia cautelare. Purtroppo il suo rilascio non è ancora avvenuto”.

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