Eccovi una lettura edificante per digerire la 70esima edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Michele Bovi, giornalista, creatore di programmi televisivi e autore di numerosi saggi sul mondo musicale, è anche uno dei massimi esperti in diritti d’autore e plagio. Ha pubblicato ora con Iacobelli (con una breve prefazione – che nulla aggiunge – di Maurizio Costanzo) Note segrete, eroi, spie e banditi della musica italiana, libro affascinante anche per le tantissime immagini di repertorio oltre che per aver rivelato come “la musica e lo spettacolo in generale non risultino isole immuni dai mali comuni agli altri ambiti sociali. E le istituzioni trattano pertanto tali settori con la medesima attenzione dedicata a quelli economici, scientifici, finanziari”.

Del resto, scrive Bovi sul suo sito, “il festival di Sanremo è la vetrina più appropriata per statistiche e paragoni riguardo allo stato e al livello della creatività ed è la prova tangibile di quanto sia sempre più inafferrabile l’originalità. A cominciare dai titoli delle canzoni”. Bovi, nel libro, parte da lontano e voglio soffermarmi più su questi anni lontani (anche per motivi di spazio) che mi paiono fortemente significativi di un fenomeno che, sia pur con valenze e metodi del tutto differenti, non si interrompe neppure oggi.

Scrive Bovi: “Il primo cantante italiano ad avere e subire rapporti con la mafia in America fu Enrico Caruso. Nel 1903 la stella del grande tenore cominciò a brillare anche al Teatro Metropolitan di New York (…) I due boss della Mano Nera newyorkese – che in fututo diverrà Cosa Nostra – erano nativi di Corleone, Giuseppe “Joe” Morello e Ignazio Lupo, il primo specializzato nella falsificazione dei dollari, il secondo con una qualifica più brutale: sospettato di 60 omicidi”.

“La Mano Nera impose a Caruso il pagamento di duemila dollari dietro minaccia di morte. Il cantante stava per pagare quando sopraggiunse una seconda richiesta: 15mila dollari. Caruso capì che stava avventurandosi in una spirale perversa e decise di affidarsi a un altro italiano, uno perbene: il sergente di polizia Joe Petrosino. Gli scagnozzi della Mano Nera finirono agli arresti e i due boss Morello e Lupo entrarono nel mirino dei servizi segreti che, nell’arco di qualche anno, riuscirono a incastrarli e spedirli al carcere duro”.

Si comincia bene, anzi male, dunque. Molti anni dopo, incolpevoli contatti con ambigui personaggi paramafiosi li ebbero Massimo Ranieri e Fausto Leali, allora giovanissimi, in tournée negli Usa. “Nel 1968 per la prima volta andai in tournée negli Stati Uniti e in Canada – racconta Fausto Leali nel libro di Bovi – Era una tournée organizzata dalle famiglie Gambino e Genovese. Il trattamento fu davvero speciale: limousine, alberghi a cinque stelle, attenzioni e cura straordinarie. Ci accompagnava sempre qualcuno delle famiglie perché, ci dicevano, l’organizzazione si faceva carico di controllare che tutto fosse perfetto, di nostro completo gradimento”.

Nello stesso anno i Rokes, il gruppo capitanato da Shel Shapiro, sono in concerto nel New Jersey. Johnny Charlton, chitarrista del complesso musicale, ricorda: “Con noi c’erano altre band come i Camaleonti, cantanti come Tony Renis, Lilian Terry, Rosalba Archilletti e Giuliana Valci e vari gruppi folkloristici regionali, dal Trentino alla Sicilia. Scoprimmo che a organizzare la serata erano state due agenzie di italiani d’America, in concorrenza tra loro, in sostanza legate a due famiglie di Cosa Nostra” quando “un tipaccio (…) aveva intimato ai tecnici il black-out gettando platealmente un revolver sul tavolo degli interruttori. Tornò la luce e noi artisti nel retropalco ci trovammo di fronte a uno spettacolo impressionante: circondati da una ventina di poliziotti”. Il pistolero era un rappresentante dell’agenzia concorrente a quella che aveva organizzato il concerto.

Non si esimeva a certi contatti la canzone partenopea (e la cronaca recente ci conferma che il rapporto non si è interrotto, vedi alcuni cantanti melodici napoletani). “Il Festival di Napoli era l’esempio più tangibile del rapporto affettivo tra musica e camorra”, spiega a Bovi il maestro Vince Tempera: “La camorra ha sempre amato e usato la musica. Un anno mi trovai ad accompagnare Sergio Bruni. Entrati nel salone del Grand Hotel fu proprio Bruni a indicarmi un tavolo rotondo e commentò: guarda, uno vicino all’altro sono seduti il prefetto, il questore e il capo camorrista. Al cospetto della buona musica sono tutti amici”.

E quando Joe Adonis, secondo l’Fbi responsabile di 101 omicidi, giunse a Serra de’ Conti, in provincia di Ancona, sede del suo soggiorno obbligato, ad accoglierlo – manco fosse la Boccadirosa di De Andrè – c’erano tutte le autorità locali civili e religiose, oltre a un nutrito manipolo di cantanti e artisti: Tony Renis, Augusto Martelli, Johnny Dorelli con Lauretta Masiero, Nini Rosso, Bruno Martino, Maria Scicolone, sorella di Sofia Loren con il marito, il jazzista Romano Mussolini.

Manca qui lo spazio per raccontare i mille aneddoti e le mille storie legate al rapporto fra criminalità e canzoni. E lascio al lettore il piacere di addentrarsi in tempi più recenti. Mi limito a ricordare i titoli di alcuni dei capitoli del libro di Bovi: Lo 007 che spiava Celentano & C.; L’America blindata di Lucio Battisti; Il fascino recondito del night; Il DNA militare del videoclip. Seguono un’approfondita bibliografia e un utilissimo indice dei nomi. Un libro da non perdere per chi si interessi di musica. E di malavita.

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