La Malesia ha rispedito al mittente (anzi, ai mittenti) 150 container colmi di rifiuti che erano stati esportati illegalmente da 13 Paesi. Esattamente 43 da Francia, 42 dal Regno Unito, 17 dagli Stati Uniti, 11 dal Canada, 10 dalla Spagna e il resto da Hong Kong, Giappone, Singapore, Portogallo, Cina, Bangladesh, Sri Lanka e Lituania. “La Malesia non pensa di pagare un solo centesimo” ha detto la ministra federale dell’ambiente, Yeo Bee Yin, specificando che i costi per il trasporto delle oltre 3,7 tonnellate di rifiuti (in corso già dagli ultimi mesi del 2019) saranno a carico dei Paesi da cui provengono e delle compagnie di navigazione che li hanno trasportati. E aveva già ribadito che i suoi funzionari avrebbero preso tutte le misure necessarie per evitare che il Paese “si trasformi nella discarica del Pianeta”.

I RIFIUTI CHE TORNANO INDIETRO – Lo aveva fatto a maggio 2019, quando la Malesia era stata costretta rispedire in Spagna cinque container e il governo di Kuala Lumpur aveva dichiarato di aver scoperto altri 60 container di rifiuti illegalmente importati e provenienti da Usa, Canada, Regno Unito e Australia. Il governo federale ha già comunicato l’intenzione di rispedire, entro la metà del 2020, altri 110 container di rifiuti che oggi sono fermi nei porti della Malesia nei Paesi sviluppati. Sessanta provengono dagli Usa, 15 dal Canada, 14 dal Giappone, 9 dal Regno Unito e 8 dal Belgio. Nel corso di una conferenza stampa al porto di Butterworth, da dove sono partiti container di rifiuti, il ministro ha assicurato che continuerà a condurre “una guerra contro l’inquinamento”. “Continuiamo a collaborare con le compagnie marittime e le autorità malesi per garantire che tutti i rifiuti vengano recuperati il prima possibile” ha spiegato, invece, alla Bbc il portavoce dell’Agenzia per l’Ambiente, aggiungendo che il governo “sta lavorando duramente per impedire nuove esportazioni illegali di rifiuti”. Poi la precisazione: “I rifiuti rispediti sono di responsabilità delle società private che li hanno esportati e saranno gestiti secondo le normative del Regno Unito. Chiunque si sia reso colpevole di esportazione illegale di rifiuti potrebbe dover affrontare, oltre a un sanzione, una pena detentiva di due anni”. Già lo scorso anno la ministra dell’Ambiente malese aveva denunciato: “I rifiuti che i cittadini del Regno Unito credono di inviare per il riciclaggio, in realtà vengono scaricati nel nostro Paese”.

IL CAMBIO DELLE ROTTE – E questo è solo un aspetto della crisi dei rifiuti che si sta consumando sotto i nostri occhi. È il risultato di una quantità troppo bassa di riciclo a livello globale, appena il 9%. Tutto il resto finisce in discarica o viene disperso nell’ambiente. Il blocco imposto dal governo cinese all’importazione di “rifiuti sporchi o contenenti sostanze pericolose”, in vigore dal gennaio 2018, ha portato solo a un cambio di rotte. Dopo il bando di Pechino, tre quarti della produzione globale di rifiuti di plastica contaminati (misti o non riciclabili) che dal 1992 entrava negli impianti cinesi e a Hong Kong, è finita in Vietnam, Thailandia, Malesia, Filippine e Indonesia. Paesi privi degli impianti necessari a smaltire la quantità di rifiuti in entrata e dove, all’importazione di rifiuti ha fatto seguito il proliferare di impianti illegali e discariche a cielo aperto. Secondo il rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti di plastica’, pubblicato ad aprile 2019 da Greenpeace, dopo il blocco cinese, i rifiuti in plastica provenienti dall’Italia, per esempio, vengono esportati verso Malesia (nel 2018 le importazioni sono aumentate del 195,4 per cento rispetto al 2017), Turchia (+191,5 per cento rispetto al 2017), Vietnam, Thailandia e Yemen. Ed è proprio la Malesia il Paese dove arrivano più rifiuti plastici a livello globale (quasi il 16% del totale), seguito da Thailandia (8,1%), Vietnam (7,6%), Hong Kong (6,8%) e Stati Uniti (6,1%).

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