Nel 2018, le Nazioni Unite hanno previsto che, al ritmo attuale delle emissioni di gas serra, il surriscaldamento della Terra supererà un grado e mezzo entro il 2040, se non prima. Per non oltrepassare la soglia dei due gradi canonici, inchiodati sulla croce del pianeta dall’accordo di Parigi del 2015, forse non basta ridimensionare le emissioni, ma dobbiamo lavorare alle cosiddette “emissioni negative”. Uno strumento a due facce, che a Parigi aveva avuto molti sostenitori.

Sono hard le tecnologie che aspirano il carbonio dall’aria, catturando e sequestrando (o immagazzinando) la CO2, note con l’acronimo Ccs, Carbon Capture and Storage – o Sequestration). Si tratta del confinamento geologico della CO2 prodotta dai grandi impianti di combustione. Anche nuovi approcci alla silvicoltura e all’agricoltura possono contribuire allo stesso obiettivo, con un approccio più soft e vintage – ossia le tecniche di bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio, note come Beccs da Bioenergy with Carbon Capture and Storage. Anche le torbiere naturali, che coprono il 3 percento della superficie terrestre e immagazzinano più gas serra di tutti gli altri tipi di vegetazione del mondo messi insieme, potrebbero contribuire alla causa.

Messo alle strette, chi sostiene l’umana estraneità alla straordinaria accelerazione del riscaldamento terrestre – fenomeno palese da almeno 50 anni e sempre più percettibile a ogni latitudine – si rifugia nel pensiero positivo delle emissioni negative e, soprattutto, sullo sviluppo delle tecnologie hard. Può funzionare?

Non c’è molto carbonio nell’aria, tutto sommato: solo 415 parti per milione; ma è ovunque. Affidarsi alla cattura del carbonio a livello globale richiederebbe impianti di trattamento su larga scala disseminati quasi ovunque sulla Terra, trasformando il pianeta in un satellite industriale del Sole, un enorme impianto di condizionamento e riciclo dell’aria in orbita attorno alla stella. Ciò nonostante, l’Agenzia Internazionale per l’Energia afferma come la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs) sia l’unica tecnologia in grado di fornire significative riduzioni delle emissioni dall’uso di combustibili fossili. Bontà loro.

In futuro, vedremo senz’altro grandi progressi in grado di ridurre i costi e aumentare l’efficienza degli impianti. Ma abbiamo abbastanza tempo per attendere tranquilli la zattera dei metodi di sequestro messi a punto dalla geo-ingegneria? Una stima ragionevole, pubblicata nel 2016 dal Bulletin of Atomic Scientists, suggerisce che, per cullare la speranza di contenere il riscaldamento globale in due gradi, bisognerebbe aprire nuovi impianti di cattura del carbonio su larga scala, al ritmo di un impianto e mezzo al giorno, ogni giorno per i prossimi 70 anni.

Nel 2018, nel mondo se ne contavano 47 in tutto, molti dei quali erano strutture sperimentali o dimostrative: 21 in Europa, 18 in Nord America, 7 in Asia, 1 in Africa e 1 in Sud America; uno soltanto (dimostrativo) in Italia, a Brindisi. Non soltanto l’adozione massiva delle tecnologie Ccs, ma anche lo sviluppo massiccio di quelle Beccs appare un miraggio fuorviante, almeno al momento. E sul ruolo delle torbiere abbiamo soltanto speranze, per ora, meritevoli di un approfondimento scientifico.

Nel 2018, il Consiglio Scientifico delle Accademie Europee ha concluso che le tecnologie esistenti per sviluppare le emissioni negative hanno un “potenziale realistico limitato”, anche soltanto per rallentare l’aumento della concentrazione della CO2 atmosferica; e tanto meno per ridurre tale concentrazione in modo significativo. E secondo un articolo scientifico pubblicato su Nature un anno fa, fare un esclusivo affidamento sul Ccs è frutto di un “pensiero magico”.

Nessuno dubita che il Ccs e soprattutto il Beccs possano contribuire alla lotta contro il riscaldamento globale, a patto che non si comprometta lo sforzo per ridurre le emissioni, che rimane il nodo essenziale. Ogni azione consapevole e mirata è benvenuta nella scatola degli attrezzi a disposizione dell’umanità. Alla quale servirebbe anche una visione globale delle politiche di adattamento, tutt’oggi pensate a scala locale o, al più, regionale.