Chiunque oggi provi a commentare la parola “immagine” rischia la banalità. Ed è proprio per questo che nessuno ne parla più, se non qualche femminista incallita. Il tema curvy è passato in cavalleria, superato, acquisito come tutte le questioni riguardanti il volto, la rappresentazione del femminile, le malattie legate al cibo e la chirurgia plastica.

Tutte abbiamo semplicemente preso atto della questione immagine e facciamo finta di non farci attenzione. Oppure, ci facciamo attenzione – giustamente, visti influencer social media e tv – ma non ne parliamo. Speriamo così di esorcizzare le nostre paure: ci mostriamo senza che qualcuno ce lo chieda per la paura che nessuno ce lo chieda, oppure prima che qualcuno – per lavoro, per bramosia, per esibizionismo, per divertissement – ce lo chieda, appunto, e noi ci si trovi impreparate, alla cosa.

E che cos’è questa cosa dell’immagine? In Italia ci hanno provato due figli a spiegare la dittatura dell’immagine attraverso la storia delle loro madri. Tre anni fa Francesco Carrozzini ha raccontato il dietro le quinte di una donna che ha inventato l’iconografia della moda italiana ed ha imparato a gestire, oltre che valorizzare, la propria e altrui esperienza (il film è disponibile su Netflix: Franca, Chaos and Creation).

Nel 2019 Beniamino Barrese ha realizzato un’idea toccante, intima e introspettiva di documentario. Presentato al Sundance Film Festival, The disappearence of my mother sta tutt’ora facendo il giro del mondo e vincendo premi (oggi il regista è in California), e la sua storia non si esaurisce in una visione in velocità. Ci sono persone che desiderano e hanno necessità di incontrarsi e parlarne della relazione madre-figlio, ma anche di questa relazione con il mondo dell’immagine che inevitabilmente esce dagli schemi e dalle quotidiane stupidaggini che siamo costretti (o vogliamo) a sciropparci.

E le persone hanno necessità di incontrare lei, la madre, la protagonista della pellicola che risponde alla voce Benedetta Barzini. The disappearence of my mother – il titolo in inglese perché non solo il film, ma la stessa Benedetta è e nasce come un personaggio internazionale – è un’opera prima che, parlando di una madre, spiega in realtà cosa significhi stare per parte della vita davanti a un obiettivo, per mestiere.

Benedetta l’ha raccontato bene il 10 gennaio, durante una proiezione napoletana organizzata dalla rassegna AstraDoc (a cura di Arci Movie Napoli): essere stata modella, essere stata icona, le ha consegnato una disillusione rispetto all’obiettivo fotografico. Lei, una dei volti più iconici del Novecento, si è talmente stancata di“vedersi” dal voler “scomparire”.

E non per una questione di rughe. Per una necessità vitale. Rinunciare a “mostrarsi” per Benedetta significa riprendere in mano i propri desideri assopiti, e non essere più ciò che gli altri vedono in lei, ma essere semplicemente il proprio contenuto. Chi ha avuto il privilegio di apparire, insomma, desidera scomparire.

Suona male fino a un certo punto – vedi alla voce “reali inglesi” – e mostra l’altra faccia dell’immaginario nascosto dietro le immagini. Ovvero: tutta questa attenzione alla forma ti fa perdere inevitabilmente sostanza. E la sostanza non potrà mai essere solo la tua forma. Anche questa è una banalità, certo, ma il film non lo è. E vi assicuro metterà in discussione non poche cose che vi riguardano personalmente.

Sono una mamma buona anche se desidero fare altro? Sono una donna piacente anche se non mi vesto come altri si aspettano? Sono capace di fare da sola quello che una volta solo viaggiatori come Bruce Chatwin erano in grado di intraprendere?

Consiglio di seguire la pagina Facebook degli spettacoli per intercettarlo, prima che guardarvelo alla tv o davanti al computer, da sole. Questo è un film da consumare “caldo”.

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