Nel 50esimo anniversario si è scritto e parlato molto di Piazza Fontana, fortunatamente. Da sempre le ricorrenze vengono solitamente enfatizzate negli anni che finiscono con lo zero o con il cinque. Non è una critica. Ben vengano se si tratta di occasioni per riaccendere i riflettori sulla controversa storia recente e scuotere per qualche ora la memoria (vorrei dire la coscienza) degli italiani.

Dunque è giusto farlo anche con una tra le più dimenticate delle troppe stragi dell’era repubblicana: il 23 dicembre 1984 la strage sul treno Rapido 904 provoca 16 vittime e 267 feriti. Una vicenda che ho già affrontato su questo blog negli anni passati.

Molti non lo sanno, ma in questi 35 anni quel treno non si è mai fermato in quella galleria buia e infuocata che attraversa l’Appennino bolognese. Fin dall’inizio, l’Associazione dei familiari delle vittime, oltre a battersi per ottenere una verità giudiziaria, ha cercato di mantenere viva la memoria storica e le memorie dei testimoni. Lo hanno fatto e continuano a farlo, spesso senza la vicinanza delle istituzioni.

Come se ricordare le stragi non fosse un dovere dello Stato, a tutti i livelli, oltre che un diritto delle vittime. Grazie a loro, quel treno è riuscito a proseguire la sua corsa fino all’estremo nord. Non a caso ieri, 22 dicembre, gli studenti del Liceo Bérard di Aosta hanno messo in scena a Forcella la trasposizione teatrale del libro Mi ricordo. Rapido 904. Frammenti di Vita, basato sulla testimonianza della sopravvissuta Lina D’Aniello.

Oggi, 23 dicembre, alle 12.15, ci sarà la commemorazione ufficiale alla stazione di Napoli. Non basta però. Oltre ai familiari delle vittime, anche il resto d’Italia potrebbe impegnarsi di più per rendere noto a tutti cosa è successo il 23 dicembre 1984 al confine tra Toscana ed Emilia-Romagna. Le pietre d’inciampo, che da tempo hanno iniziato a disseminare memorie sui selciati di varie città, non si possono posare sui binari della direttissima.

Ma non sarebbe la prima volta che l’immaginazione e la generosità di tanti giovani ben (in)formati possono stupire. Proprio l’Appennino, a partire da quel martoriato tratto compreso tra San Benedetto Val di Sambro e Vernio, potrebbe essere il centro di gravità permanente di nuovi germogli di memoria.

“Le cose che non si sanno, non sono”. Nel 1974 Leonardo Sciascia mette queste parole in bocca a don Gaetano, l’inquietante e realistico personaggio del romanzo Todo modo interpretato due anni dopo da Marcello Mastroianni nella trasposizione cinematografica di Elio Petri. Perfetta sintesi della natura del potere italiano. Non solo italiano.

Gli anni successivi s’incaricheranno di rendere tragicamente profetico questo amaro ritratto di un Paese in cui i “sistemi criminali” condizionano da sempre la vita della Repubblica. Basti pensare a quel 74, annus horribilis in cui la strategia della tensione di matrice nazifascista e anticomunista provoca ben due stragi indiscriminate: il 28 maggio l’organizzazione Ordine Nuovo fa esplodere una bomba a Brescia durante una manifestazione sindacale contro il terrorismo; il 4 agosto il treno Italicus viene squarciato da un’impunita bomba nera mentre attraversa la Grande Galleria dell’Appennino, vicino a Bologna.

Il 2 novembre dell’anno successivo a rimetterci è un altro profeta: Pier Paolo Pasolini, massacrato da vivo e da morto. Il 16 marzo 1978 in via Fani un commando di cui fanno parte anche le Brigate Rosse stermina gli uomini della scorta di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana ignobilmente sacrificato il 9 maggio sull’altare dell’anticomunismo. Sono gli anni in cui la criminalità mafiosa s’impasta sempre più con la criminalità politica. Criminalità organizzate, plurali. Ben finanziate.

Anni cruciali il 1978 e 1979, in cui la violenza dei terroristi neri e rossi dilaga e si affina. Con un balzo si torna a Bologna per la strage dei record: 85 morti, duecento feriti, migliaia di persone sprofondate nel dolore. Il più sanguinoso atto di terrorismo politico mai avvenuto in Europa (il 10 gennaio 2020 una sentenza dovrà rispondere a questa domanda: Gilberto Cavallini aiutò gli altri tre membri dei Nar che, con l’aiuto di ignoti, fecero esplodere una bomba in stazione il 2 agosto 1980?).

Sembrava che, con l’arrivo dei fantastici anni 80, la strage di Bologna avesse chiuso quella stagione di terrore. Invece no. Dal terrore si passerà alla “barbarie”, per dirla con Paolo Morando. Il 1984 è l’anno della “Strage di Natale”. Dopo due stragi ferroviarie agostane e dopo lo smascheramento della loggia massonica P2, questa volta i terroristi organizzati scelgono un treno pieno di famiglie che da Napoli salgono al nord per andare a festeggiare il Natale da parenti e amici.

È l’ennesima apocalisse lungo la ferrovia direttissima, all’interno della stessa galleria in cui dieci anni prima il treno Italicus aveva terminato la sua corsa. I professionisti del terrore non hanno fantasia. Si scoprirà che a mettere la bomba sulla carrozza numero 9 è un’assortita congrega di cui fan parte mafiosi, fascisti e un artificiere. L’unica innovazione rispetto all’Italicus è di carattere tecnico.

È la prima e non ultima volta che un ordigno stragista viene innescato da un telecomando, anziché da un timer: una sceneggiatura molto simile la ritroveremo nei primi anni 90 al servizio di nuove strategie della tensione ristabilizzanti. Il potere e le coscienze di molti decideranno poi di scendere a patti con i cattivi pur di tutelarsi da futuri ammazzamenti.

L’ennesima brutta storia a cui opporre la bellezza della memoria. Non basta essere più o meno “vicini ai familiari delle vittime” oggi. Ancora più importante è concentrarsi su cosa si può fare di utile domani, insieme a loro, per sapere sempre di più e ricordare sempre meglio. Perché solo le cose che si sanno esistono. Chi vuole rendersi utile?

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