Già nel primo giorno dell’annuncio del fallimento di Banca Popolare di Bari il dito accusatorio dei media è stato subito puntato verso la Banca d’Italia. Come è naturale che sia, essendo essa responsabile per la sorveglianza sul sistema bancario italiano e quindi sulla serietà del “come” e “a chi” viene concesso il credito erogato dalle banche, da cui discende anche la solidità e liquidità di tutto il comparto bancario-finanziario italiano.

Ho già esplicitato, in più occasioni fin dal 2013, la mia contrarietà alla riforma in senso iperliberista del sistema bancario americano, subito importata in Italia negli anni 90, che ha allargato alle operazioni speculative i depositi bancari – aumentando con progressione geometrica i rischi del sistema – fino al fallimento della Lehman Brothers. A cui non è seguito nessun vero recupero normativo, essendo gli “stress test” e le regole dei successivi “Basel” insufficienti a mettere veramente al riparo dai rischi di default l’intero sistema bancario, dove è tuttora pienamente attivo l’odioso too big to fail (troppo grandi – certe banche – per lasciarle fallire), come viene ora confermato anche con la Popolare pugliese.

Se verranno confermate dalla magistratura le truffe di cui si parla, è sperabile che finalmente si veda qualcuno di quei “banchieri furboni” smaltire in galera le proprie furberie. Ma è anche sul piano “tecnico” che occorre rivedere la qualità dell’esame creditizio – prima che esso venga concesso. Ed è quello di cui ora vorrei parlare, perché ho la netta sensazione che oramai l’analisi del credito venga fatta quasi esclusivamente mediante gli scoring di qualche “intelligente” algoritmo, lasciando quindi al computer (notoriamente stupido) la valutazione approssimativa delle operazioni e alla benevolenza dei manager la susseguente approvazione (con tutti i chiaroscuri che emergono solo quando è troppo tardi).

Essendo stato io, dalla metà degli anni 70 fino alla metà degli anni 90, uno specialista professionale in queste analisi, credo di poter fare una critica ponderata e non interessata (o obbligata dalla sudditanza politica o manageriale) su questa problematica.

Quando fallisce una banca? Quando dal suo bilancio (che però si fa solo a fine anno se la banca non è quotata in Borsa) risultano perdite superiori al capitale netto (cioè il valore delle azioni intestate ai soci più le riserve accantonate).

Spesso succede però (come nel caso della Bpb) che gli amministratori, per evitare di dichiarare il fallimento, mantengano nella posta “crediti dubbi” per tempi molto più lunghi di quelli normali (che sono un paio d’anni al massimo): crediti diventati completamente “inesigibili”, che dovrebbero pertanto essere imputati al conto economico come “perdite d’esercizio” (quindi, nel caso di Bpb, all’obbligo del fallimento).

Questo spiega il perché delle pesanti critiche a Bankitalia. Essa non ha responsabilità sulla bontà del credito concesso, se regolarmente valutato al momento della presa in carico, ma ha grande responsabilità invece sulla sua valutazione quando rimane per anni nel conto dei “crediti dubbi”.

Nel caso della Popolare di Bari è ora intervenuto il governo, attraverso la controllata Invitalia, a risolvere la situazione immettendo un capitale di 900 milioni a risanamento della situazione (diventando di fatto nuovo azionista unico). Ma è un caso difficilmente replicabile poiché è denaro pubblico. Tuttavia, questo caso ha un esemplare precedente nell’intervento del governo americano a salvare i due mega-istituti semipubblici Fannie Mae e Freddy Mac, 100 volte più grandi, con le stesse modalità.

Le nuove regole a livello centrale europeo, introdotte in questo secolo a sostegno delle banche in difficoltà, prevedono che la banca possa prelevare forzosamente dal conto obbligazioni (cioè titoli della banca sottoscritti dagli stessi clienti risparmiatori) e persino dai conti correnti che presentano un saldo uguale o superiore ai 100mila euro tutto il capitale necessario fino a copertura delle perdite, attivando così il famigerato bail-in, cioè il contrario dell’aiuto di Stato che in inglese si chiama bail-out.

A questa diabolica norma, che punisce i clienti invece che la banca, si potrebbero aggiungere le nuove norme (varate in Italia proprio nel 2019) sui pignoramenti che consentono (nel giubilo dei creditori col pelo sullo stomaco) di procedere direttamente al recupero del loro credito, maggiorato di interessi e spese, pignorando ogni bene di valore dei clienti “morosi” anche senza il decreto ingiuntivo previsto in precedenza dal codice civile.

Come sono cambiati i tempi! Quando ero io a decidere per primo se concedere il credito, andando in visita all’impresa dopo aver fatto una approfondita indagine amministrativa sugli ultimi tre bilanci annuali e sulle prospettive di crescita economica, mi trovavo spesso di fronte alla lamentela sulla esosità delle banche in relazione alla richiesta di garanzie a tutela del credito. Regolarmente rispondevo con fermezza che non è competenza della banca assumersi il rischio dell’iniziativa: “la banca opera coi soldi affidatici dai risparmiatori, noi abbiamo il dovere di tutelarli al massimo. Il rischio d’impresa deve restare interamente sugli imprenditori, è una loro scelta”.

I nuovi banchieri del 21esimo secolo, in unione (a loro insaputa) coi soci correntisti, hanno deciso finalmente che il too big to fail (troppo grande per fallire) è diventato obsoleto: prossimamente ci sarà together nobody fail (insieme non fallisce nessuno)! Non sarà quindi più necessario essere “grandi” per evitare il fallimento. Con le nuove regole, che potranno in seguito anche essere “migliorate” (abbassando progressivamente la soglia dei 100mila euro), non fallirà più nessuna banca e con le nuove regole sui pignoramenti non sarà più nemmeno necessario rivolgersi ai pretori per “spolpare l’osso fino al midollo”.

C’era una volta la “Banca amica”.

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