L’addio era nell’aria: tra abbracci da ultimo giorno e volti tristi dei giocatori non era troppo azzardato immaginare che quella contro il Genk fosse l’ultima partita di Carlo Ancelotti. Azzardato era immaginare l’esonero a due ore dalla gara che ha sancito l’ingresso agli ottavi di Champions del Napoli, cioè il raggiungimento di un obiettivo stagionale. Ultima decisione poco comprensibile di una stagione quasi del tutto incomprensibile.

Irritualità che non cancella gli errori di Ancelotti. Tanti, troppi, macroscopici. Si salvano le gare di Champions, il resto è una lunga serie di scelte e valutazioni sbagliate. La più grande: non capire che un ciclo era finito con Sarri e lo scudetto perso a Firenze. Credere poi di poter rivitalizzare i protagonisti di quella parentesi semplicemente con il proprio curriculum e con un’opera di “desarrizione” progressiva. Non ci è riuscito, non poteva. Ha sopravvalutato calciatori, capaci di dare il massimo in un sistema fatto da regole e schemi rigidissimi, lasciando loro libertà: andate e fate. E invece Insigne, Mertens, Zielinski prima hanno continuato a giocare benino rifugiandosi nei vecchi schemi, poi si sono persi definitivamente una volta liberati.

Ha continuato a credere di poter applicare le sue idee, Ancelotti, senza adattarsi a quelle dei giocatori. Giustamente, peraltro, se ti chiami Ancelotti: un 4-4-2 giudicato più da grande rispetto al 4-3-3 chiesto da Mertens, Callejon e soprattutto da Insigne. Non ha funzionato, mai: in campionato il Napoli ha sempre giocato male o almeno non bene come da quelle parti si erano ormai abituati, prestando il fianco in difesa e diventando statico in avanti, con i social che via via si ripopolavano dei video di Cagliari-Napoli o di Napoli-Torino, manifesti del periodo sarrista mai dimenticato.

E in una stagione partita con l’obiettivo dello scudetto e un mercato giudicato da 10 dal tecnico è arrivata una media punti peggiore di quelle di Donadoni e persino di Reja al secondo anno, quando la squadra aveva tutt’altri valori in campo. Media da esonero, senza dubbio.

Nella certezza che il periodo ancelottiano sia pacificamente etichettabile come fallimentare restano tanti dubbi su modi e tempi. A partire da un’intervista rilasciata in un periodo in cui le vittorie ancora arrivavano, quando Adl di fatto metteva Ruiz e Koulibaly sul mercato, diceva di Mertens e Callejon “vedremo se vogliono andare a fare marchette in Cina” e di Insigne che “deve capire cosa vuol fare da grande”. Casuale, forse, ma da quel momento, era metà ottobre, è iniziata la caduta.

Ancelotti è finito sulla graticola, giustamente, ma mentre gli si assicuravano amore, fiducia e stima nelle dichiarazioni, continuando a prospettare ruoli alla Ferguson. Emblematiche le riflessioni affidate alla radio ufficiale nel post Bologna, ad esempio: quando il “mai pensato alla separazione da Ancelotti” veniva accompagnato da riflessioni sibilline su metodi di allenamento scolastici evidentemente sgraditi alla società.

Nel mezzo gli ammutinamenti, le dichiarazioni fatte nonostante il silenzio stampa, una squadra più che spaccata in gruppi e gruppuscoli, terrorizzata dal campo e in balia di avversari tutt’altro che temibili, tranne in Champions. Fino all’esonero: due ore dopo una qualificazione agli ottavi di Champions, la terza della storia del Napoli. L’ennesimo Ferguson mancato dell’era De Laurentiis, che si ferma ancora alla crisi del secondo anno, persino più violenta.

Arriverà Gattuso, ex allievo e amico di Ancelotti: dovrà far contenti i calciatori, facendoli giocare col 4-3-3. Probabilmente con lui arriverà anche qualche risultato, cosa inevitabile visto che il Napoli a prescindere da ogni difficoltà non è squadra da ottavo posto, e forse anche Ibrahimovic. Perché nei momenti di difficoltà un effetto speciale, un fuoco d’artificio, come fu lo stesso Ancelotti nel post Sarri, fa sempre bene: ma è un piatto che sa di decrescita. Chissà quanto felice.

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