“Vorrei piuttosto fare una domanda, cioè ‘ci sono le telecamere in quel posto?’, lì è la prova, nelle telecamere, per il resto non posso dire niente”. È la domanda di sfida che ha fatto al giudice durante l’interrogatorio Antonio Cianci, l’ergastolano sabato durante il giorno di permesso ha tentato di uccidere un anziano, all’ospedale San Raffaele a Milano.

Come si legge nell’ordinanza cautelare firmata dal gip Ilaria De Magistris Cianci sapeva dell’assenza di telecamere in quel piano del San Raffaele e ha agito per il “gusto di saper delinquere“. Secondo il giudice, ha “bisogno” di “cimentarsi” nei crimini e di mostrare, “ostentare” la sua “dominanza criminale”. Ha approfittato con “freddezza” del permesso premio che gli è stato concesso, ha “ordito l’aggressione”, mascherandosi da operatore del San Raffaele. Sapeva che al piano meno 1 non c’erano telecamere e, se non fosse stato bloccato dalla polizia, non sarebbe tornato in carcere. Cianci, scrive il gip Ilaria De Magistris, con le sue azioni, ma anche con quelle frasi “provocatorie” pronunciate nell’interrogatorio, dimostra il suo “perdurante bisogno, non governato seppur lucido, di cimentarsi in atti criminali complessi“, un “bisogno che il Cianci mostra in tal modo di nutrire tuttora, malgrado” la sua “biografia penale”. Vuole, prosegue il giudice, “affermare una propensione” alla “commissione di delitti” di “particolare efferatezza”. Quella contro l’anziano è stata, infatti, scrive ancora il gip, “un’aggressione violenta, sanguinaria”, con “evidente dolo omicidiario“. Ma ci sono anche altre espressioni usate da Cianci, secondo il gip, che mostrano la personalità di un uomo che si “autolegittima a delinquere ulteriormente”, a colpire ancora. “Sono in carcere da 40 anni”, ha detto l’uomo davanti al giudice, “ho solo l’ergastolo e poi una condanna a 5 anni e 2 mesi per associazione per delinquere”. Un modo il suo, secondo il gip, per dare per assodato il suo “orizzonte” di “cattività“, cioè di carcerazione che dura da quasi tutta la vita e durerà ancora.

Per il resto l’ergastolano ha scelto di non rispondere alle domande e di restare in silenzio. L’interrogatorio si è tenuto nel carcere milanese di San Vittore. Cianci, ora accusato di rapina e tentato omicidio, era fuori dal carcere di Bollate, dove sta scontando l’ergastolo, per un permesso premio di 12 ore (era il terzo di cui usufruiva) concesso sulla base dell’articolo 30 ter della legge sull’ordinamento penitenziario che lo riserva anche ai condannati all’ergastolo, dopo 10 anni di detenzione, se hanno “tenuto regolare condotta” e se “non risultano socialmente pericolosi”. Le polemiche tuttavia sono nate proprio per il via libera a quel beneficio, poco dopo le pronunce controverse sui permessi agli ergastolani di mafia. Cianci è in carcere dal 1979 quando aveva ucciso tre carabinieri a Melzo. Cinque anni prima, all’età di 15 anni, aveva ucciso un metronotte a Segrate per poi essere assolto per vizio di mente.

Secondo la ricostruzione della magistratura, dunque, durante le ore di permesso Cianci ha raggiunto il San Raffaele: qui ha rubato una tuta da inserviente, guanti, mascherina e un apparecchio per misurare la pressione, in modo da passare inosservato all’interno dell’ospedale. Quindi ha chiesto soldi all’anziano vittima della sua aggressione, che gli ha dato quello che aveva in tasca, 9 euro e 37 centesimi. L’ergastolano “adirato” per la cifra “esigua” a quel punto gli ha sferrato un fendente alla gola con un taglierino, una “lesione potenzialmente mortale” perché ha sfiorato la giugulare. Quando è stato bloccato poco lontano, mentre aspettava un bus, era “apparentemente tranquillo”, si legge nell’ordinanza, e poco prima aveva buttato in un bidone tutto l’occorrente che gli era servito per mascherarsi, oltre al cellulare della vittima e al taglierino.

“Meno dello 0,7% dei condannati che ha beneficiato di misure alternative alla detenzione risulta aver commesso nuovi reati e nel solo primo semestre del 2019 risultano concessi, sulla base di dati ministeriali, 19.610 permessi premio”, spiegano in una nota gli avvocati della Camera penale di Milano facendo riferimento al caso. Questi dati, chiarisce la Camera penale milanese, dimostrano “che la quasi totalità dei beneficiari rispetta le prescrizioni imposte senza ricadere nel reato”. I numeri, concludono gli avvocati, confermano “che le misure alternative alla detenzione portano, salvo eccezioni, alla concreta rieducazione del condannato e che l’episodio di cui si è parlato è rappresentativo di quanto accaduto in meno dello 0,005% dei casi”.

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