Save the Children ha pubblicato in questi giorni alcune statistiche sull’infanzia italiana e i dati che spiccano, nella loro patologica criticità, non sorprendono. L’Italia non è un paese per bambini, così come non lo è per donne, giovani, poveri, stranieri… la lista sarebbe lunga.

Restando sul tema bambini emerge come in Italia sia cresciuta la percentuale di bambini in povertà assoluta (12,5%), resti alta quella dei bambini che abbandonano la scuola (14,5%), un numero follemente alto di istituti sia privo di certificato di agibilità (21.662) o sia classificato “vetusto”, si facciano sempre meno figli.

E’ curioso che in un paese a fortissima impronta cattolica come l’Italia, dove l’embrione è forse più sacro del suo contenitore, ossessionato dalla mistica della femmina riproduttiva alla quale viene reso estremamente difficile pensare liberamente ad un’interruzione di gravidanza, una volta nati i bambini vengano di fatto lasciati a se stessi, persi in una società che li voleva sì sulla carta, ma non ha l’interesse né le risorse per potersene occupare.

I bambini sono la merce di scambio d’elezione, ignari veicolano messaggi di potenza ed efficacia straordinarie, e attraverso la loro manipolazione ideologica si raggiungono obiettivi altri, sottotraccia. Dalla loro sacralità, si può appunto arrivare al controllo delle donne, facendo leva sui sensi di colpa per un eventuale aborto o un possibile ritorno al lavoro, ma si può anche alimentare lo scontro interrazziale su questioni come il diritto alla casa, buoni pasto, esenzioni, creando di fatto diverse classi di bambini.

I dati emersi dalla pubblicazione non sorprendono nessuno, ma non indignano nemmeno più nessuno. E forse è proprio questo l’elemento più inquietante dell’Italia di oggi: la sottomissione a un destino inesorabile sul quale noi, come società civile, nulla possiamo.

Save the Children propone una petizione sul recupero di alcuni luoghi simbolici abbandonati e destinarli all’infanzia, ma quella che potrebbe essere un’idea meritoria rischia di restare una proposta intellettuale staccata dai bisogni reali delle famiglie.

Ci vogliono soluzioni politiche generate da avvenimenti di grande rottura, che possono provenire solamente dalle viscere: la rivincita della massa che arriva dal basso. È il popolo che col suo bollore scende in strada, abbandona la sua quotidiana mansuetudine, e grida il proprio dissenso. Ma in Italia la rivoluzione sociale degli adulti non prende vita, e non è un caso che le ultime grandi manifestazioni di folle siano arrivate dai ragazzi.

In questo senso la mia generazione, i 40enni, è un fallimento. Un ibrido politico e sociale. Siamo la generazione che ha iniziato a perdere il senso di comunità, che ha smesso di avere voglia di lottare per l’altro, quella figura indistinta, quel nostro fratello (interessante come tuttavia ci si professi cattolici) i cui contorni non distinguiamo ma che sappiamo essere più in là, sconfitto da una geografia che è destino, inamovibile e inerme e al quale non osiamo, nemmeno per un attimo, tendere la mano.

Abbiamo vissuto il vuoto morale del ventennio berlusconiano, l’ubriacatura del facile successo dei reality prima e dei social poi, i cantautori soppiantati dagli influencer, il sesso virtuale al posto del ribaltabile, abbiamo barattato il dibattito vis-à-vis con gli scontri su Facebook, abbiamo accettato passivamente, senza alcun senso critico, di farci stravolgere il modo di vivere le relazioni, di come interagiamo, conviviamo.

E in questa ottica, esasperati da un senso di rivoluzione abortita, da un cambiamento che mai accadrà, dalla chiusura in noi stessi (all’interno di un cosmo social), dalla sfiducia totale nelle istituzioni, abbiamo perso un’idea di mondo nella quale si vive insieme e per gli altri.

Se l’uomo non è più disposto a battersi per qualcosa di più grande che se stesso, la società che genererà posa i suoi fondamenti sull’iniquità, il mero interesse personale, l’ingiustizia. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Ma non si può vivere tutta la vita neutrali.

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