L’assegnazione del premio Nobel per la Pace ad Abiy Ahmed Ali, primo ministro etiope, ci fa riscoprire il continente dimenticato, l’Africa, e la sua regione più ignorata e reietta, dove l’Italia ha svolto in passato un ruolo importante. Il Comitato Nobel ne ha premiato “gli sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale e, in particolare, la decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”. Ha voluto così offrire un riconoscimento a “tutte le parti interessate che lavorano per la pace e la riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nordorientale”.

Sono stati fatti grandi passi in avanti per sanare il ventennale conflitto tra quello che fu l’impero di Hailé Selassié e la confinante costola dell’Eritrea, primo territorio della moderna storia coloniale italiana e Stato indipendente solo dal 1991, dopo una lotta non estranea al Risiko della guerra fredda. Ma c’è un conflitto altrettanto importante, finora combattuto solo dalle diplomazie e dai tecnici, che passi in avanti non ne fa.

Nasce dai contrasti sullo sfruttamento delle acque del Nilo, dove un grande progetto idroelettrico modificherà in modo significativo i deflussi del Nilo Azzurro. La Grand Ethiopian Renaissance Dam, enorme diga in costruzione 40 chilometri a valle della confluenza con il fiume Beles e 15 dal confine con il Sudan, è destinata a invasare 10 milioni di metri cubi d’acqua, costerà 4 miliardi di dollari e avrà una capacità di 6mila megawatt, una potenza sette volte maggiore di quella installata nella centrale nucleare di Caorso chiusa nel 1990. L’Etiopia diventerà così il più grande esportatore di energia del continente. Energia pulita.

Da un lato, l’Egitto vuole garantire ai suoi 100 milioni di abitanti la sicurezza idrica, poiché il Nilo è la principale se non l’unica risorsa su cui può contare: vale il 90 percento del totale dell’acqua dolce usata in quel paese. Dall’altro, l’Etiopia ha bisogno di fornire l’energia elettrica a oltre 100 milioni di cittadini e alimentare il proprio sviluppo economico. E se il Sudan fa da terzo incomodo, è la prima e diretta parte in causa, a fronte di una situazione affatto bloccata ma essenziale per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’Africa orientale, dal Mediterraneo all’Oceano Indiano.

La scorsa settimana, l’Etiopia ha respinto la proposta dell’Egitto di coinvolgere un mediatore internazionale, preferibilmente gli Stati Uniti, per superare lo stallo nelle discussioni tecniche sulla durata del riempimento dell’invaso e sull’impatto che la gestione della diga avrà sui paesi a valle.

Il sogno dell’Etiopia di sfruttare le sue enormi risorse idroelettriche è antico. Ricordo che, nei primi anni 80, un progetto esplorativo europeo a cui lavoravo giudicò il potenziale idro-energetico del paese pari a quello dell’allora Europa dei Quindici, quanti erano gli stati aderenti alla Comunità Economica Europea. Alla fine del 1988, ebbi l’onore di presentare al presidente Menghistu il Master Plan energetico nazionale, elaborato da imprese pubbliche italiane con la collaborazione dell’università. Il piatto forte di questo piano prevedeva un progressivo sfruttamento di questo potenziale per alimentare lo sviluppo del paese, plaga di fame e povertà. Mi colpì allora una classe dirigente dotata di un solido bagaglio culturale. E, soprattutto, la dignità della gente comune, pur in una situazione di miseria, precarietà e instabilità politica; un paese sulla soglia della guerra civile che sarebbe divampata poco dopo.

L’Egitto fonda le sue ragioni sull’accordo storico del 1929, siglato con la Gran Bretagna che all’epoca rappresentava l’Uganda, il Kenya, il Tanganica (ora Tanzania) e il Sudan. Un successivo accordo bilaterale tra Egitto e Sudan del 1959, mai ratificato dagli altri stati del bacino del Nilo, aveva poi stabilito di garantire all’Egitto 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua e al Sudan 18,5. L’intesa del 1929 ha dato per lungo tempo al Cairo il diritto di porre il veto a qualunque progetto di monte in grado di influenzare i livelli di valle. Nel 2010 il trattato del 1929 è stato rigettato ufficialmente dagli altri paesi che condividono le acque del Nilo, con la firma di un Accordo Quadro Cooperativo (Cooperative Framework Agreement, Cfa) che garantisce a ogni paese di sviluppare i propri progetti sulle acque del fiume senza il previo consenso dell’Egitto. E, naturalmente, l’Egitto si rifiuta di riconoscere questo accordo.

Nel 2015 Egitto, Etiopia e Sudan avevano firmato una “Dichiarazione di principi” come base per i futuri negoziati. Si era convenuto che i paesi a valle sarebbero stati compensati con la priorità nell’acquisto dell’energia elettrica generata dalla diga. In realtà, ben poco si è fatto per allentare la tensione che il progetto annunciato dall’Etiopia nel 2011 continua a suscitare. Fino all’attuale crisi.

In futuro, la gestione delle acque del Nilo è destinata a svolgere un ruolo essenziale nel regolare i rapporti fra molti stati africani, non solo fra quelli direttamente interessati alla Grand Ethiopian Renaissance Dam. Va ricordato che il Nilo è il fiume più lungo del mondo, il cui bacino comprende vasti territori del Burundi, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Egitto, dell’Eritrea, dell’Etiopia, del Kenya, del Sudan, del Ruanda, della Tanzania e del Sud Sudan. E, almeno in questo caso, non è facile riconoscere chi sia lupo e chi agnello, in un contesto naturale, ambientale, economico e culturale così complesso e delicato.

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