L’ultimo migrante si chiama Raymond. La Sierra Leone, suo Paese d’origine, lo scacciò durante l’interminabile guerra civile dei diamanti insanguinati. L’implicazione di Charles Taylor, attualmente in carcere per crimini contro l’umanità, non fece che peggiorare le cose. Un Paese allo sbando che costrinse Raymond e migliaia come lui ad abbandonarlo e a cercare altrove la salvezza.

Lui ha 42 anni e da quando era quattordicenne non visse altro che la guerra – durata qualcosa come undici anni. Da rifugiato gradualmente si trasformò in emigrante e infine in “irregolare”. Ma con la “complicità” dell’Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni, da presunto “criminale” ha potuto accedere allo statuto di libero migrante ed è stato rispedito in patria. L’identità di Raymond si è costruita e disfatta col tempo, con la sabbia, con i documenti e con le frontiere labili dell’umana avventura.

Il giorno prima di tornare al suo Paese natale, Raymond è passato per salutare. È stato il mese di giugno di quest’anno e ha giurato davanti al dio dei migranti – che poi è un dio a parte – che sarebbe rimasto in quel Paese che fu costretto a lasciare quasi trent’anni prima. Raymond non ha saputo resistere al canto delle “sirene di sabbia” che, dopo l’esperienza deludente di Ulisse, hanno fatto dei migranti il loro bersaglio favorito. Nessuno ha legato Raymond all’albero della nave e così, senza offrire resistenza, è ripartito.

Ha presentato con sapiente lentezza il passaporto che teneva in tasca assieme a una moltitudine di fogli scritti a mano. Indirizzi, numeri telefonici, promesse di matrimonio e codici segreti per un conto in banca inesistente. Aveva appena attraversato la frontiera della Nigeria dopo aver passato quella del Benin, del Togo, del Ghana, della Costa d’Avorio e della Guinea. Il tutto per via delle sirene di sabbia che, evidentemente, hanno legami con quelle del mare e financo con quelle della foresta.

Una sorta di “multinazionale” delle sirene che, facilitate dalla globalizzazione, ha la possibilità di comunicare in tempo reale gli spostamenti dei migranti e delocalizzare i loro canti. Raymond è rimasto giusto due mesi in Sierra Leone: un luogo dove la pace non basta per “mangiare” la dignità. Ha lamentato di non aver ricevuto il fondo previsto per il reinserimento nel suo Paese.

Questo fondo è previsto dagli accordi informali tra gli Stati finanziatori e l’Oim, con quest’ultima che si occupa dei “liberi” rimpatri dei migranti che le sirene hanno abbandonato al loro destino: ma di questi fondi non vi è nessun rendiconto trasparente. Raymond non ha resistito e ha abbandonato di nuovo il suo Paese per cercare quanto non era sicuro di trovare nella sua terra d’origine, una Matrigna che da anni ha abbandonato i propri figli al miglior offerente per quanto riguarda le transazioni umanitarie.

Appena prima di lui, che cerca casa senza trovarla, erano passate tre signore della Repubblica Centrafricana. Proprio mentre a Niamey si svolgeva un seminario sulla democrazia in Africa occidentale, le tre donne erano arrivate senza nulla da promettere agli elettori. Dal loro Paese, in guerra dall’ultimo colpo di stato del 2013, transitarono per il Camerun e per la Nigeria per raggiungere il Niger. Le sirene le avevano accompagnate, per solidarietà di genere, sane e salve fino ad Agadez, nel nord del Niger, nuova frontiera dell’Europa.

Non poterono però fare nulla per impedire che, a un giorno e mezzo di viaggio dalla città, fossero fatte prigioniere da banditi armati che parlavano, a loro dire, arabo. Le tre signore, i mariti e gli altri passeggeri del camion furono derubati di tutti i loro averi e le donne patirono quello non si può raccontare mai in pubblico.

Fatima, una delle tre, raccontava che anche sua figlia undicenne era passata per la stessa esperienza. La bimba viveva con sua madre in una delle numerose stazioni delle corriere della capitale, che fungono anche da alberghi dei poveri – con docce, bagni e materassini di gomma. Prima di partire confessò, con pudore, che la figlia undicenne si chiama Maryam, Maria.

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