“Via Stalingrado” come “Via Hermann Goering”? Su Il Fatto Quotidiano del 24 settembre, Daniela Ranieri passa in rassegna con la consueta ironia alcuni punti salienti della risoluzione del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo – Auschwitz fu liberata dall’Armata Rossa, scrive.

Fabio Marcelli invece prende le mosse da quel “rovescismo” di cui ha parlato su il manifesto lo storico Angelo D’Orsi come momento di revisionismo estremo e constata che, se i 5 stelle non hanno firmato e nemmeno Massimiliano Smeriglio del Pd, “addolora particolarmente la scelta di Giuliano Pisapia” il quale, insieme ad altri, ha firmato in nome di una “generica e non meglio precisata ‘lotta al totalitarismo’”.

Ma al di là delle considerazioni storiche e politiche, si sceglie qui la prospettiva dello studio psicosociale delle atrocità collettive, per cui equiparare le due esperienze è un grave errore. “S’era un po’ stupiti, si diceva: anche te t’hanno preso? Anche te t’hanno preso? Non si sapeva nemmeno raccapezzare perché”. È uno stralcio di intervista di un sopravvissuto ai campi di concentramento raccolto, con molte altre testimonianze, da Andrea Devoto, lo psichiatra toscano che, ai tempi in cui in Italia l’argomento era “rimosso”, dedicò gran parte della propria vita allo studio della psicologia dei campi concentrazionari (il passaggio qui citato è tratto da Memoria Viva: responsabilità del ricordare e partecipazione civica).

In questo “non si sapeva nemmeno raccapezzare perché” c’è quella (disperata) ricerca di una cornice di senso che distingue il trauma dei deportati nei lager nazisti da quelli sovietici. Per questo, sotto il profilo psicosociale, è un grave errore equiparare le due esperienze storiche.

Le critiche da sinistra alla risoluzione del Parlamento europeo hanno ricevuto, sopratutto sui social, repliche del tipo: “i morti uccisi da Stalin sono forse diversi? sono di serie B? Stalin ha fatto cose aberranti!”. E’ quasi un disco rotto. Ma la questione è mal posta: se i morti sono tutti ugualmente degni di rispetto, il contesto e il come sono stati uccisi possono fare la differenza rispetto al vero soggetto della discussione.

L’esperienza nazista fu un’atrocità collettiva in cui il popolo sembrò comportarsi come una sorta di “sol carnefice”. Persone “normali” si fecero agenti di un disegno dell’orrore, in vari gradi e ruoli. Ma lo studio approfondito della macchina nazista, che aveva come scopo l’annientamento di un altro popolo, ci consegna con la psicologia sociale, oltre la fredda disumanità, le dinamiche che l’hanno resa possibile, spiegando i (molti e diversi) “fattori” che possono renderla ripetibile e quindi fornendo alcuni strumenti per capire a quali altre atrocità collettive è invece assimilabile – il Rwanda, la Bosnia o la Cambogia di Pol Pot, per esempio.

Le scienze sociali hanno ricostruito diversi “momenti” che si sono verificati nell’esperienza nazista: delegittimazione sociale, esclusione morale, cerimonie di degradazione (simbolizzazione della “morte psicologica”: assegnazione del numero, rasare i capelli, etc), depersonalizzazione/deindividuazione, fino a traghettare l’individuo nel “mondo delle disumanità”. Per poi educare – in una seconda fase, ci dicono – e ridurre l’individuo all’obbedienza, quindi recidendo qualsiasi forma di resistenza/ribellione, fino a premiare il prigioniero che si mette contro l’altro prigioniero, e infine l’”aggregazione”, “quando i prigionieri dimostrano di ‘essere’ il ruolo assegnato: docili prigionieri”.

Si è di fronte a qualcosa di diverso dal disegno politico di Stalin, leader feroce che manda nei campi di lavoro forzati i “nemici di classe”, in condizioni disumane, certo, ma in cui difficilmente ci si è chiesti: “non ci si sapeva nemmeno raccapezzare perché”.

La punizione era probabilmente “nel conto”, anche se non di quella ferocia. Non a caso, alcuni sopravvissuti ai gulag sono diventati testimoni politici forti e determinanti di denuncia antisovietica – e non, come nella stragrande maggioranza dei casi, fantasmi di se stessi che han cercato di narrare l’indicibile: “è dunque questo un uomo?”, o in generale: “come è potuto accadere tutto questo?”.

Se i gulag gridano vendetta, i lager nazisti (im)pongono domande angoscianti sull’essere umano e sulla sua possibilità di infliggere umiliazione e sofferenza ai suoi simili, come togliere loro un grado di umanità dopo l’altro, sino a renderli “non più umani”. E dunque eliminabili con una certa facilità.

I nazisti hanno fatto esperimenti medici che per crudeltà sono “superati”, forse, solo dai cambogiani al tempo dei Khmer rossi. Tutto questo non va derubricato come “follia”, nel movimento difensivo sul piano psicologico che “noi”, persone “normali”, non lo faremmo mai (del resto stiamo acconsentendo alla morte in mare, a pochi metri dalle nostre coste, di persone in fuga dalla fame e dalle torture), perché oggi sappiamo che le atrocità collettive possono ripetersi. Per questo, salvaguardare la specificità del genocidio nazista significa (anche) difendere un’idea e una pratica di memoria e di testimonianza come dovere civico, morale ed epistemologico.

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