Dietro il vestito, grana. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova ha scelto d’indicare come prioritaria l’attuazione piena del contestato accordo commerciale euro-canadese Ceta (Comprehensive economic and trade agreement). “Dobbiamo valorizzare le nostre eccellenze”, ha risposto serafica alle polemiche del caso, ben più controverse di quelle sul vestito blu elettrico sfoggiato al giuramento.

La neo capo delegazione del partito di Matteo Renzi al Conte 2 sarà stata mossa da una più che legittima sensibilità alle preoccupazioni per il calo dell’export, conseguente allo stallo sul Ceta, dei produttori di parmigiano reggiano e di grana padano: del resto la Bellanova è entrata proprio dall‘Emilia Romagna grazie al paracadute senatoriale “Casini-style”. Si noti che, invece, dal suo stesso collegio elettorale salentino di Nardò per la Camera, dove alle ultime politiche è stata bocciata, sono prontamente insorte le voci di alcune associazioni agricole che si battono per la tutela della biodiversità e temono che il Ceta sia solo “il cavallo di Troia per aggirare i limiti Ue in materia di residui dei pesticidi nel cibo, uso degli ormoni e degli antibiotici nell’allevamento”.

Anche il M5S ha criticato questa prima uscita della Bellanova, con in prima fila il presidente della Commissione Agricoltura della Camera, Federico Gallinella. E, siccome i guai arrivano sempre in buona compagnia, la Bellanova rischia di dover affrontare un’altra crisi internazionale, dopo che Donald Trump ha ottenuto dal Wto di bloccare l’import di vari prodotti Ue, tra cui i nostri pecorino, olio e prosecco, come ritorsione per gli aiuti al consorzio Airbus, concorrente dell’americana Boeing.

E’ davvero complessa, seppur di grande importanza, la singolare vicenda di questo accordo internazionale che l’Italia giustamente fatica a digerire. E non certo per il capriccio di qualche bio-fanatico o degli Ogm-fobici. In effetti, per un consorzio del grana che vuole riportare subito tante belle forme pregiate in Nordamerica, c’è la Coldiretti stessa che ha definito il Ceta, senza mezzi termini, “il primo trattato europeo che autorizza le frodi alimentari“, perché consente ai canadesi di ignorare oltre 250 denominazioni di origine (Dop/Igp) italiane riconosciute dall’Unione europea e persino di tradurre in etichetta alcuni dei 41 prodotti tutelati. Gli esempi recenti non mancano, prova ne siano la produzione e diffusione anche negli Stati Uniti di parmesan dell’Ontario, di fresh mozzarella e di un fantomatico “friulano” dal Quebec.

Per carità, forse sono pure buoni, o buonissimi, magari meglio di quelli cinesi. Ma, ben al di là del gusto o delle slealtà commerciali, quel che preoccupa è che non vi sono garanzie relativamente alla presenza di Ogm e di tanta altra chimica agricola-industriale nei mangimi delle iper-produttive mucche da latte canadesi. Anni fa divenne nota la Frisona Holstein di una fattoria in quel di Woodstock, Ontario, che aveva raggiunto il record di 25 tonnellate di latte per 305 giorni di mungitura! Di certo non mangiava come le sue cugine alquanto meno sfruttate dell’Alto Adige, dove nei masi si sta affermando sempre di più la produzione di cosiddetto “latte-fieno”, ricavato da mucche che si alimentano esclusivamente con erbe e fiori dei prati sotto le Dolomiti.

L’agro-business legato all’allevamento è una delle questioni ecologiche più drammatiche del mondo: in questo settore, anche dietro al “luminoso” marchio leader in Italia, spadroneggiano colossi multinazionali come l’americana Cargill, indicata come “the worst company in the world” da Mighty Earth, forse la più autorevole Ong che lotta contro la deforestazione. Ma dato che anche le peggiori ricadute ambientali non smuovono più di tanto le coscienze, così da lontano come appaiono le foreste in fiamme dell’Amazzonia e ancor di più in Africa, dovremmo cominciare a preoccuparci almeno per la nostra salute.

Se vi capita tra le mani il best-seller dell’oncologa Maria Rosa Di Fazio, Mangiare bene per sconfiggere il male, c’è da rabbrividire a leggere, per esempio, che la soia modificata o l’olio di palma che abbondano nei mangimi (si possono impiegare anche nelle stalle di grana padano) e negli alimenti industriali non distruggono solo i polmoni verdi del mondo, ma preparano potenzialmente danni irreversibili a vari organi dentro di noi.

Dopo 17 edizioni in meno di tre anni, questo agile manuale continua la sua corsa con il passaparola, eppure sui grandi media non se n’è quasi parlato: certo, l’editore – Mind di Milano – è fuori dai grandi giochi del potere, e non aiutano nemmeno le tesi del libro. E anche se non compaiono esplicitamente i marchi più pubblicizzati del cosiddetto food & beverage, si riconoscono molto bene: è davvero meglio starne alla larga.

E forse anche l’ottima Bellanova, che sugli Ogm si è limitata a promettere: “Voglio aprire un confronto serio, è un tema delicato che non va affrontato in modo azzardato” (sic!), dovrebbe cominciare a tenere lontano certi amici del suo leader amerikano Renzi, oltre che i vecchi compagni del grana.

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