Un mese fa moriva Noa Pothoven, triste conclusione del fallimento di ogni progetto terapeutico portato avanti fino a quel momento. Nessun professionista vorrebbe mai perdere una paziente così. Sentimenti di impotenza, ineluttabilità, incapacità, si aggiungono al dispiacere per una giovane vita che se ne va.

Come caso di anoressia piuttosto che di eutanasia, la vicenda di Noa stimola il dibattito tra i professionisti della salute mentale, che discutono soprattutto su quanto potesse essere evitata la conclusione mortale. C’è chi sostiene che un professionista esperto possa costruire strategie di intervento efficaci, anche attraverso l’inserimento coatto in un ambiente comunitario, per sottrarre un paziente a rischio di suicidio, dalle forme invischianti e simbiotiche dei rapporti familiari da cui provengono le persone che sviluppano comportamenti alimentari gravemente disfunzionali, difendendo un modello di intervento attivo, ritenuto valido per la tutela della salute mentale e fisica. Modello sicuramente condivisibile, su cui comunque fare delle riflessioni.

Le persone che si ammalano e manifestano comportamenti alimentari disfunzionali di una certa gravità iniziano spesso ritirandosi dalle relazioni, dopo la delusione da una figura significativa. Esse provengono in genere da famiglie in cui prevale il controllo sulla tenerezza e gli stimoli genitoriali tendono a soffocare le iniziative personali dei figli. Spesso sono genitori poco sensibili che criticano, interferiscono, ammoniscono e controllano continuamente le esperienze fondamentali dei figli, impedendo loro di fatto di sviluppare affetti e pensieri autonomi.

L’invischiamento è la caratteristica più specifica di questi ambienti familiari: la differenziazione, cioè il riconoscimento delle differenze individuali come legittime, è povera e l’individuo si perde nel sistema. L’autonomia personale è così scarsa da non consentire un funzionamento personale. Il fatto che i familiari siano intrusivi rispetto ai pensieri e ai sentimenti dei figli comporta che gli altri vengano spesso considerati come insensibili e intrusivi, e l’aspettativa costante è di essere delusi e/o di deludere le persone significative. Le rappresentazioni interne, cioè le idee su se stessi, sono quelle di essere spiacevoli e non all’altezza. Questa percezione di sé sgradevole assume la forma di un corpo deformato dal grasso, contro cui si deve costantemente combattere astenendosi dal cibo.

Se l’unica modalità di esistenza è attraverso il sintomo, si può capire come tentativi coatti di eliminarlo possano paradossalmente renderne più determinata la sua espressione e come i professionisti si trovino ogni volta nella difficoltà di valutare quale sia la soluzione migliore tra il bisogno di intervenire in maniera coattiva per il pericolo di vita, e il rischio che questi stessi interventi diventino iatrogeni, che portino cioè a ulteriori conseguenze negative.

In sintesi perciò possiamo dire che condizioni di fragilità emotive preesistenti, sviluppate in dinamiche familiari caratterizzate dall’invischiamento, si combinano con esperienze negative che avvengono fuori dalla famiglia – per Noa di molestie e violenza – che purtroppo confermano i sentimenti di sgradevolezza, indegnità personale, vergogna e quant’altro, contro i quali la persona sofferente combatte costantemente.

Le modalità coercitive e intrusive messe in atto ripetutamente, per tutelare la vita di una paziente, probabilmente contribuiscono a rafforzare il meccanismo oppositivo, caratteristico di questi disturbi, dando luogo a un braccio di ferro tra tentativi di familiari e medici di salvare la vita, e determinazione di una paziente di salvarsi invece dall’intrusività e gestirsi da sola, anche a costo della morte. Una paradossale affermazione di sé.

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