In dieci anni dal disastro di Viareggio, la politica ha fatto poco per migliorare la sicurezza delle ferrovie. Il 29 giugno 2009, un convoglio di 14 cisterne di gpl deragliò alla stazione intorno alla mezzanotte e l’incendio che ne seguì uccise 32 persone nelle proprie case o che passavano per strada. Dieci anni in cui la politica avrebbe potuto imporre alle aziende ferroviarie italiane – oltre 30 operano sui nostri binari – tutte quelle misure evidenziate nel processo giunto giovedì 20 giugno alla sentenza di secondo grado presso la Corte d’Appello di Firenze: cisterne a prova di squarcio, dispositivi anti deragliamento noti da decenni, riduzione della velocità nel trasporto di merci pericolose (benché secondo la difesa, nel processo di Viareggio, il treno, più va veloce, più è sicuro, perché si riduce l’intervallo temporale di rischio). Non ultima, avrebbe dovuto rendere obbligatoria la valutazione del rischio nel trasporto di merci pericolose, ad oggi facoltativa. Anche se – va detto – il gruppo Fs Italiane tra il 2009 e il 2018 ha fatto investimenti su sicurezza, sia per infrastrutture sia per materiale rotabile, pari a oltre 22 milioni di euro dal 2009 al 2018 e l’indice Global Safety Index di Rfi, calcolato dall’Union Internationale des Chemins de Fer, secondo i dati 2017, è 1,05: uno tra i più bassi in Europa e anche al di sotto della media europea (1,96).

Le misure chieste dai familiari delle vittime
Si sono susseguite maggioranze di destra, sinistra, esecutivi tecnici e gialloverdi, ma nessuno in questi dieci anni ha imposto neppure una delle misure chieste dai familiari delle vittime di Viareggio ed evidenziate dalla Procura di Lucca prima e da quella generale di Firenze poi. Eppure, un incidente analogo, l’incendio al Cinema Statuto di Torino del 1983, dove persero la vita tra le fiamme 64 spettatori, dette il via a un ripensamento legislativo sulla sicurezza nei locali pubblici in Italia. Viareggio, invece, non sembra aver provocato scossoni importanti. È di qualche giorno fa l’entrata in vigore del quarto pacchetto ferroviario, firmato da Ansf (Agenzia nazionale per la Sicurezza Ferroviaria) ed Era (Agenzia Ferroviaria Europea), che completa la liberalizzazione del mercato ferroviario europeo. Tuttavia, ben lontana dall’imporre obblighi, usa esclusivamente il condizionale – “dovrebbe”, “dovrebbero” – quando parla di manutenzione e controllo del rischio. Certo, come ha ricordato Daniela Rombi, tra i simboli della battaglia di Viareggio, che nel disastro ha perso la figlia Emanuela di 21 anni, le merci pericolose devono viaggiare su ferrovia, non su gomma: il treno resta il mezzo più sicuro, lo dicono i dati. Tuttavia secondo la sentenza di Viareggio esistono due misure che riducono il rischio di deragliamento: la diminuzione della velocità e il detettore di svio EDT101, detto anti-deragliamento, un dispositivo che blocca il treno quando esce dai binari. 

L’anti-deragliamento
“E che a Viareggio, così come a Pioltello, avrebbe evitato il disastro”, dice a Ilfatto.it l’avvocato Gabriele Dalle Luche, difensore di alcuni familiari e ferrovieri nel processo di Viareggio. Se ancora non si conoscono le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Firenze, quelle del Tribunale di Lucca parlano chiaro. “L’EDT101 si attiva in 0,04 secondi e manda in frenatura automatica il treno. Montato sul convoglio, avrebbe evitato quello che è successo a Viareggio, perché si sarebbe fermato il treno e non avrebbe mai raggiunto né il picchetto né la zampa di lepre (le parti della ferrovia che secondo due diverse ipotesi avrebbero squarciato una cisterna deragliata facendo fuoriuscire il gpl, nda). Del detettore di svio si è discusso tantissimo anche in appello. È un dispositivo assolutamente sicuro, efficace, efficiente, omologato a livello internazionale, nella versione EDT100 conosciuto dalle ferrovie addirittura alla fine degli anni Novanta, poi ha subito una variazione nella taratura nel 2007, con il nome di EDT101, ma anche l’EDT100 era omologato, quindi vuol dire che era efficace ed efficiente”, sostiene Dalle Luche.

La questione della velocità
Il convoglio di Viareggio viaggiava a oltre 90 chilometri all’ora nel centro abitato. “I giudici dissero che la riduzione della velocità era una misura che avrebbero potuto adottare per mitigare il pericolo. Su questo la sentenza di primo grado è granitica”, ricorda Dalle Luche. L’accusa poi ha evidenziato che un muro tra i binari e le case avrebbe ridotto l’espandersi del gpl. A bloccarne la costruzione, secondo la difesa, fu lo stop della Regione Toscana. Sarebbero stati utili i carri cuscinetto: cisterne piene di materiale inerte, frapposte tra la locomotiva e le merci pericolose. “Se a Viareggio ci fosse stato un carro cuscinetto, si sarebbe squarciato quello e non la cisterna di gpl”, aggiunge Dalle Luche. Esistono pure cisterne anti squarcio, fatte con materiale più robusto. “Sono impiegate nel trasporto di sostanze radioattive”, spiega l’avvocato. Ma a mancare, secondo i giudici di primo grado, fu soprattutto un’adeguata valutazione del rischio. “È stato riconosciuto che le Ferrovie erano completamente sprovviste di questa valutazione. Se ne è parlato tanto anche in appello”, conclude il legale. 

I politici vicini ai familiari delle vittime di Viareggio
La politica qualcosina ha fatto, ma non per la sicurezza. Se non fosse stato per il governo Berlusconi, che varò la legge Viareggio, i familiari, che lottarono per ottenerla, non avrebbero avuto le centinaia di migliaia di euro necessarie a pagare periti e avvocati per prendere parte al processo: ne sarebbero stati tagliati fuori. È grazie all’attuale ministro di Giustizia Alfonso Bonafede, poi, se è stata approvata la riforma della prescrizione, che ferma l’estinzione dei reati dopo il primo grado di giudizio. Si chiama anche questa “legge Viareggio”, in rispetto dei familiari che hanno visto cadere in prescrizione i reati di lesioni colpose plurime gravi e gravissime e di incendio colposo. Il senatore Gianluca Ferrara (M5S) ha chiesto all’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti, tra i condannati in secondo grado, di rinunciare al titolo di Cavaliere. A maggio il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ha visitato il memoriale in via Ponchielli, la strada più colpita dall’incendio. Nessuna maggioranza ha, però, ha ancora imposto nuove misure per la sicurezza in ferrovie. 

Le certificazioni di sicurezza
La Protezione Civile rinnova da anni un protocollo di azione con Ferrovie dello Stato (e chissà se, oltre a FS, anche altre aziende lo rispettano). Il sistema, però, presenta delle debolezze. In caso di esplosione o crollo di palazzine, è previsto che qualcuno – un cittadino che sente il boato – lanci l’allarme ai vigili del fuoco e qualcun altro – il macchinista se non è morto, o il capostazione, se c’è – avvisi la sala operativa locale delle ferrovie, che informa la sala operativa nazionale di Rfi, che avvia le procedure interne, e solo dopo contatta i Vigili del Fuoco locali con i dati utili: cosa è successo, quale materiale viene trasportato e in quali quantità. Passano minuti su minuti, che, in questi casi, fanno la differenza. La soluzione ci sarebbe, secondo i familiari delle vittime di Viareggio: un database condiviso tra imprese ferroviarie e vigili del fuoco, sui flussi di merci pericolose nei centri abitati. Lo chiedono da anni, inutilmente, eppure la politica potrebbe imporlo anche sulla scorta di un regolamento europeo, il 1158 del 2010. L’Europa chiedeva che venissero rilasciati i certificati di sicurezza solo alle reti ferroviarie che assicurano che “i servizi di soccorso ricevano tutte le informazioni in anticipo, per preparare la loro risposta di emergenza, e al momento di un’emergenza”.

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