Le prime ore del mattino sono quelle in cui è più frequente l’istinto di suicidarsi. Lo scrive Sarah Kane, una delle più affermate autrici contemporanee inglesi, nel suo dramma estremo Psicosi delle 4 e 48 e poi si uccide.

Erano esattamente le 4.48 (lo rivelerà l’autopsia) del 20 febbraio 1999. E lei non aveva neanche 30 anni.
“Scriverlo mi ha uccisa”, annota Sarah Kane sul biglietto allegato alla copia di 4.48 Psychosis lasciata alla sua agente letteraria. Il suo ultimo dramma, perfezionato fino all’ultimo istante della sua vita, è anche il suo testamento poetico andato in scena al Napoli Teatro Festival (regia di Enrico Frattaroli). “Addio! Addio!”, scriveva Mahler sui pentagrammi vuoti delle pagine manoscritte della Decima Sinfonia che lascerà incompiuta e fa da sottofondo musicale alla pièce.

Con lucida freddezza Sarah (interpretata da una strepitosa Mariateresa Pascale) mette a nudo la sua più intima vulnerabilità per dire che “questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere”.
Aspra e graffiante nel monologo che la conduce sull’orlo dell’abisso. Come lo fu nella sua prima e controversa opera Blasted al Royal Court di Londra dove nulla risparmiò allo spettatore: masturbazione, fellatio, stupro e defecazione. Se avesse potuto Sarah avrebbe messo in scena anche il suo suicidio.

“Non riesco a pensare. Non prendo decisioni. Non riesco a superare la mia solitudine, il mio disgusto. Non riesco ad amarmi… Sono depressa al pensiero della mia morte prossima. Ho desiderio di consegnarmi alla morte”. Interviene la voce fuori campo rassicurante del medico che la tiene in cura: “Va tutto bene. Tu starai meglio”. Lei insiste nel suo desiderio di consegnarsi alla morte. “Mi faccio un’overdose di pillole, mi taglio le vene dei polsi e poi mi impicco così nessuno lo scambierà per un grido d’aiuto. La depressione non è una malattia, è rabbia”.

Il suo gesto non è assurda follia o semplice disperazione. Sembra quasi l’esito inevitabile di chi tra qualche ora sa che non sarà più su questo mondo.

Sono stata morta per troppo tempo, adesso ritorno alla radici. Sono cresciuta nell’era sbagliata, nel corpo sbagliato…”.

Sarah bestemmia: “Vaffa… a Dio che mi hai fatto amare la persona sbagliata. Sono fatta per l’amore e l’assenza riempie il tempo e lo spazio. Ma niente può riempire il mio cuore”. L’angoscia le ruggisce dentro: “Non posso piacerti se non mi piaccio io… Avrai sempre un pezzo di me nelle tue mani, un pezzo della mia vita. Ti ho amato, ma ti ho anche odiato”. I cannot fuck, I cannot be alone, scritte in sovrimpressione sullo sfondo mentre scorre la lista di farmaci antidepressivi prescritti: lofepramanine, citolopram, prozac. Le dosi aumentano di settimana in settimana ma non servono perché non esiste nessun farmaco che possa dare senso alla vita. “Inutile radere al suolo le attività più sofisticate del mio cervello. Ho il pensiero in stallo. Sono in uno stato d’assedio, tutto si compierà… Sono l’insanità del sano”. E intanto si immagina sotto una coperta di scarafaggi.

Si vede come un inferno vivente. Capace di dare solo il peggio di sé. Siamo al tragico epilogo. “Non mi sono mai uccisa prima, non cercate precedenti”. Eppure ammette di avere impresso nel rovescio della mente un bisogno vitale d’amore: “Non voglio morire, nessun suicida lo vuole veramente”.

Nulla è per sempre. Eccetto il nulla. In sala scende il buio totale.

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