“In alcuni casi, alla fine di un contratto a termine, le aziende hanno preferito prendere un’altra persona sempre con un contratto a termine piuttosto che trasformare quello stesso rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato. È su questo punto che si può intervenire, affidando alla contrattazione più rappresentativa l’individuazione delle formule migliori per poter utilizzare ancora il lavoro flessibile“. Così Claudio Durigon, sottosegretario al ministero del Lavoro, intervistato dal Corriere della Sera conferma i contenuti di un ddl che dovrebbe essere incardinato a fine mese in commissione Lavoro alla Camera e prevede modifiche al decreto Dignità firmato dal leader M5s Luigi Di Maio, in vigore dalla scorsa estate. “Tornare alle leggi sul lavoro di ‘piddina memoria‘ e lasciare nuovamente spazio a sfruttamento e precariato? Anche no”, ha subito replicato il sottosegretario M5s Claudio Cominardi. E poco dopo Di Maio, nel corso della riunione con i ministri M5S a Palazzo Chigi, ha chiuso: “Il decreto dignità non si tocca. Chi rivuole ampliare la portata dei contratti a termine, sottopagando i lavoratori e altro, può rivolgersi a Renzi. Il Jobs Act è stata una delle peggiori legge mai fatta negli ultimi 20 anni”.

Il testo, i cui contenuti sono stati anticipati domenica dal Sole 24 Ore, ammorbidisce la stretta sui contratti precari introdotta dal dl Dignità che ha reso obbligatoria la causale in caso di proroghe dopo i primi 12 mesi: i contratti collettivi potranno, stando al ddl leghista, individuare “causali aggiuntive” rispetto a quelle previste dal dl dignità (“esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori” e “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”). Allargando così la possibilità di ricorrere a rapporti a tempo. Va detto però che nei fatti la modifica non sarebbe nemmeno necessaria: già oggi infatti i contratti collettivi e quelli “di prossimità” – aziendali o territoriali – possono prevedere deroghe o allungare il periodo durante il quale non è obbligatoria la causale.

“Non vogliamo smontare nulla – sostiene Durigon parlando al Corriere – il nostro intervento non va contro il decreto “dignità” che ha fatto un bellissimo lavoro portando a un incremento dei contratti a tempo indeterminato. Innanzitutto si tratta di un disegno di legge parlamentare e quindi in Parlamento ci sarà il modo di trovare una sintesi. E poi non si tratta di fare marcia indietro perché quel provvedimento ha funzionato benissimo. Semmai si può intervenire su alcune piccole zone d’ombra che, inevitabilmente, si sono manifestate dopo un anno”. Ovvero: “C’è stato un leggero aumento del turn over rispetto alle stabilizzazioni“. Di qui l’idea di “affidare alla contrattazione più rappresentativa l’individuazione delle formule migliori per poter utilizzare ancora il lavoro flessibile”. Il leghista mette paletti anche sul fronte del salario minimo: il ddl del Movimento 5 Stelle dovrebbe arrivare in aula al Senato questa settimana ma secondo Durigon “deve andare di pari passo al taglio del cuneo fiscale, cioè delle tasse sul lavoro. In questo modo è possibile far salire la busta paga del lavoratore senza aumentare i costi per le imprese”.

Cominardi però rivendica che “nonostante l’effetto stagnazione generato anche nel nostro Paese da una forte crisi dell’economia mondiale, la disoccupazione non è aumentata e i contratti a tempo indeterminato continuano a crescere. Anche l’ultimo report dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps ha dimostrato che nel primo trimestre del 2019, rispetto al primo trimestre 2018, i contratti a tempo indeterminato e i contratti di apprendistato sono aumentati notevolmente, registrando un +75% di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato”. E “parallelamente, sono calati i rapporti di lavoro in somministrazione e le cessazioni alla scadenza dei contratti a termine”. Quindi “il problema non è rappresentato dalle causali, che rappresentano la ragion d’essere del contratto e che il Decreto Dignità ha regolato allineandone i criteri di applicazione a quelli dei Paesi europei più avanzati. I dati non parlano nemmeno di un ‘eccesso di turn over’. Più sensata sarebbe l’introduzione del diritto di precedenza per i lavoratori in servizio“.

La Cgil, che aveva contestato il decreto Dignità perché aprirebbe la strada a forme di precarietà ancora meno tutelate, chiede dal canto suo che “nessun intervento legislativo operi nuovamente sul decreto Dignità e in particolare sui contratti a termine senza confronto con le parti sociali. Si affrontino e risolvano prima le tante vertenze aperte e si effettui la necessaria manutenzione del decreto rafforzando i percorsi di stabilizzazione dei lavoratori con la contrattazione nazionale”. Per la confederazione, “dopo alcuni mesi dalla sua attuazione, le criticità che avevamo espresso inizialmente si stanno purtroppo materializzando come sulla mancata scelta di apporre la causale fin dall’inizio del contratto, altrettanto sull’assenza di una causale per picchi programmabili, così come sull’impossibilità di affidare alla contrattazione nazionale una declinazione delle causali concordata. Se da un lato riscontriamo la stabilizzazione di buona parte delle figure più professionalizzate, dall’altro assistiamo, soprattutto tra le mansioni più fungibili, ad un aumento del turnover piuttosto che alla stabilizzazione delle professionalità con contratto a termine o in somministrazione. Siamo di fronte quindi ad un utilizzo spregiudicato delle imprese delle varie forme di assunzioni precarie”.

La Cisl dal conto suo sottolinea che “non ha condiviso dall’inizio l’impostazione rigida del ‘decreto dignità’. Purtroppo, come da noi paventato, l’obbligo di causali stabilite per legge ha scoraggiato le assunzioni a termine ed in somministrazione, per timore di eventuale contenzioso, senza compensare le mancate assunzioni con altrettante stabilizzazioni, che si sono verificate in numero insufficiente, mentre a crescere è stato soprattutto il turnover”. Quindi “dare un ruolo alla contrattazione collettiva nella definizione delle causali, come richiesto dalla Cisl dal primo momento, consentirebbe quella flessibilità socialmente controllata utile a conciliare le esigenze aziendali con la tutela dei lavoratori”, ma “continuiamo a chiedere che ciò avvenga con un tavolo di confronto con le parti sociali per condividere formulazioni legislative che possano assicurare le soluzioni più equilibrate, anche perché chiediamo di rivedere il decreto su altri due punti: escludere le attività stagionali dal computo del limite complessivo del 30% e dal contributo aggiuntivo dello 0,5%, vincoli paradossali se si tiene conto del fatto che per gli stagionali vige un diritto di precedenza nelle assunzioni”.

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