di Claudia De Martino*

A dieci giorni dalle Elezioni europee, molti cittadini europei si domandano a cosa serva l’Unione e se e quanto le decisioni prese dalla Commissione a Bruxelles influenzino la propria vita quotidiana. Tuttavia, c’è un dossier per eccellenza sul quale non si possono avere dubbi in merito: la sopravvivenza dell’accordo sul nucleare iraniano, tecnicamente noto come “Piano d’azione congiunto globale” o dal suo acronimo inglese “Jcpoa”.

Nessuno Stato europeo, singolarmente inteso, ha alcun potere di salvare l’accordo attualmente in vigore, che è però fortemente a rischio, dato il severo attacco infertogli negli ultimi mesi dagli Stati Uniti. Nessuno Stato, e tantomeno l’Italia da sola, può svolgere un ruolo costruttivo nell’ostacolare l’escalation che gli Stati Uniti – sotto la guida di un’Amministrazione allo stesso tempo nazionalista, isolazionista e aggressiva in politica estera – cercano con la Repubblica islamica d’Iran. Un ruolo storico che può invece spettare all’Europa, qualora essa sia in grado di agire con una sola voce e in coordinamento con altre grandi potenze mondiali, come Cina e Russia, spendendosi allo stesso tempo per la pace, per la difesa del diritto internazionale, per la non-proliferazione nucleare e per l’interesse strategico del continente europeo nel suo insieme.

Ci sono numerosi motivi per cui l’Ue e i suoi Paesi membri dovrebbero essere interessati a mantenere in vigore il Jcpoa:

1. il primo è un principio generale di coerenza, dato che il P5+1 è stato un accordo internazionale sofferto, negoziato per oltre due anni tra i principali firmatari, prima di trovare un accordo di massima che è risultato in una posizione di compromesso, capace però di spingere la Repubblica islamica iraniana a rinunciare all’arricchimento dell’uranio a scopi militari da ormai quattro anni;

2. il secondo è un principio di opportunità politica, che riconosce che l’accordo nel 2015 è stato possibile perché i riformisti iraniani, guidati dall’attuale presidente Hassan Rouhani, hanno concesso fiducia alla comunità internazionale e alla capacità della diplomazia di dirimere i conflitti, una scelta che potrebbe rappresentare un precedente positivo anche rispetto ad altri contesti problematici riguardo alla proliferazione nucleare – come la Corea del Nord – qualora si dimostrasse capace di apportare una soluzione valida, duratura ed equa per tutti i segnatari dell’accordo;

3. il terzo è un principio di rispetto del diritto internazionale e, dunque, della sua difesa, dal momento che l’accordo non è stato violato dall’Iran ma dal ritiro unilaterale e per ragioni del tutto strumentali degli Stati Uniti, che pure lo avevano siglato nel 2015;

4. il quarto è un principio di interesse economico europeo, dal momento che l’Unione europea, dopo la rimozione delle sanzioni, aveva intensificato i propri rapporti commerciali con l’Iran (registrando una netta crescita annuale fino alla metà del 2018, pari a 18.39 miliardi di euro annuali), un flusso commerciale di cui hanno beneficiato in primis Italia, Francia, Germania e Spagna.

Non meno importanti sono le considerazioni di lungo periodo: i Paesi europei hanno tutto l’interesse a evitare la proliferazione nucleare in una regione geograficamente vicina, come il Medio Oriente, dove numerosi conflitti sono già in corso e dove una corsa alle armi nucleari può innescare un confronto letale diretto tra le potenze di medio calibro dell’area (Israele e Arabia Saudita vs. Iran), la cui conseguenza immediata sarebbe non solo la destabilizzazione dell’intera area mediterranea (soprattutto se il conflitto dovesse toccare Israele), ma anche un nuovo afflusso di profughi verso l’Unione europea.

È per questo che i 27 capi di Stato dell’Unione europea si sono riuniti il 9 maggio in fretta in un vertice informale a Sibiu, in Romania, per discutere tra loro su come implementare lo Special Purpose Vehicle, ovvero il meccanismo legale di scambio commerciale con l’Iran che permetterebbe di continuare a importare ed esportare dal Paese senza trasferimenti in denaro, puniti dalle sanzioni statunitensi. Per gestire questo meccanismo, molto complesso, è stata creata una società apposita (chiamata “Instex”) di diritto privato con sede a Parigi, appoggiata diplomaticamente dall’Unione europea ma formalmente indipendente, con il mandato di commerciare in “beni umanitari” (cibo, prodotti agricoli, medicine e dispositivi medici).

Tuttavia, l’Iran ha già risposto che per restare nell’accordo questo stratagemma non è sufficiente, perché il suo problema principale resta esportare adeguati volumi di petrolio, sua principale risorsa economica, a ritmi pressoché inalterati rispetto all’entrata in vigore delle sanzioni. È bene capire che non si tratta, da parte iraniana, di un “ultimatum” come la stampa internazionale l’ha erroneamente riportato, ma piuttosto di una legittima richiesta del Paese persiano di non essere economicamente “strozzato” dalle sanzioni Usa, scenario che avrebbe delle pesanti ripercussioni anche sulla tenuta degli equilibri politici interni al Paese.

Per non far fallire l’accordo, che è nel nostro interesse di cittadini europei, occorrerebbe chiedere ai prossimi Commissione e Parlamento europei designati dal voto del 26 maggio non solo di fare tutto il possibile perché l’Svp, l’Instex e altre misure analoghe vengano implementate in fretta, ma anche di esplorare nuove soluzioni creative per rilanciare i contatti commerciali, diplomatici e culturali con un Paese che è a rischio isolamento, ma che non si lascerà piegare dalle sanzioni Usa senza reagire in maniera altrettanto determinata, infiammando il Medio Oriente: uno scenario che è interesse prioritario degli Europei scongiurare.

* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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