Abitavo in via Lanzone, niente di lussuoso, una casa di ringhiera (Peter Gomez abitava al secondo piano) e ci sono passati un po’ tutti: Elio Fiorucci quando non era in giro a fare scouting per il mondo, quelli che poi sarebbero diventati le archistar Antonio Citterio e Matteo Thun, l’editore Alberto Rusconi, Chiara Beria d’Argentine, Marta Marzotto, Enrico Minoli, Andrea Zanussi, Matteo Zoppas, Leonardo Mondadori, Giuseppe Gazzoni (il re dell’Idrolitina) e un giovane Urbano Cairo a inizio carriera. E ci passava anche qualche politico, Renato Altissimo e Gianni De Michelis, i gentiluomini/viveur del Parlamento italiano. Erano uomini di un certo spessore culturale e umano. Mica come certi politici di oggi.

Gianni prima di intraprendere la carriera politica era professore di Chimica, che – racconta Gian Antonio Stella – insegnava da trascinatore. I socialisti erano famosi per un certo buon vivere e di questo bon vivre Gianni era il timoniere. Appena nominato ministro degli Esteri, lo intervistai per il Mattino di Napoli nella hall, rivestita rosso broccato, dell’Hotel Plaza, la succursale godereccia della Prima Repubblica. Lui ci dormiva, stessa suite da anni, il Plaza era il suo ufficio. Mi divertiva il codazzo di faccendieri, portaborse, nani e ballerine che gli girava intorno.

Durante l’intervista gli confessai il mio sogno di fare la reporter. Mi auto-inviavo, sognando di diventare Oriana Fallaci. Mi invitò a fare parte della sua delegazione e con l’aereo presidenziale andammo in Thailandia e Vietnam. Aveva già capito che bisognava guardare ad Est. Per carità, non ero una giornalista a sbafo: ne ho fatto uno solo, di viaggio “istituzionale”. E comunque rispetto alla corte che Bettino Craxi si trascinò in Cina eravamo veramente un gruppo sparuto di giornalisti, fra cui Toti Palma, allora inviato dell’Europeo. Dopo Hanoi, dove fummo ricevuti in grande stile in ambasciata Italia, De Michelis & company fecero ritorno in Italia, io proseguii per la Cambogia. Dunque, ho scroccato solo l’andata.

Credo che di me apprezzasse un certo mio distacco da “normanna borbonica” e il fatto di non avergli mai chiesto un favore. Non bello, ma dotato di chiacchiera travolgente, coltissimo, simpatico, ironico, sveglio, sempre circondato da belle donne, mai sfacciato. Non era certo tipo da #MeToo. Se percepiva da parte di una “lei” una strizzatina d’occhio, insomma se lei lasciava intendere che ci stava, allora partiva il corteggiamento. Non mi ha mai corteggiato, eravamo amici e basta. Due i grandi amori di Gianni: Camilla Nesbitt, adesso produttrice cinematografica, e Sandra Monteleone che lo lasciò per mettersi con Carlo De Benedetti.

Gianni era noto per la sua grande passione per il ballo. Sfociata in una sorta di vademecum, scritto negli anni Ottanta all’apice della carriera politica: si intitolava Dove andiamo a ballare questa sera? Guida semiseria a 250 discoteche italiane. Una volta di passaggio a Napoli lo invitai a ballare al La Mela. Per lui le discoteche erano i “più importanti luogo di socializzazione per le nuove generazioni”. Lui che era di una certa corpulenza quando era in pista si muoveva con straordinaria disinvoltura. A Roma mi ha invitato qualche volta al Jackie O’, il locale della Dolce Vita, e a qualche ballo mascherato a Venezia, un po’ stile Wide Eyes Shut. Tra le sue “visioni” quelle dei Giacimenti Culturali: la valorizzazione del made in Italy in senso esteso sarebbe stato il nostro “petrolio”. Ci aveva visto giusto.

Anche nel crollo è rimasto dignitoso. “L’incidente giudiziario di cui sono vittima – diceva – è l’equivalente di una frattura per un atleta. Per un po’ non giochi. Amen”. Mi piace ricordare Gianni come uno che ha cavalcato la cresta dell’onda. Saliva, saliva, poi per forza doveva infrangersi. Ed è rimasto sommerso, e come lui tanti altri. Adesso verrebbe quasi voglia di rimpiangere quegli anni 90. Così lontani, eppure così vicini.

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