Mediaset ha chiuso il bilancio 2018 con un utile di 598 milioni (risultato sul quale ha inciso anche la svalutazione per i cambiamenti relativi alla cessione del business pay e la consistente plusvalenza per la cessione di EiTowers, la società delle torri di trasmissione: al netto di queste poste straordinarie il risultato segnerebbe un saldo positivo di 97 milioni). I ricavi sono arrivati a 3.402 milioni (-4%), di cui il 29% ottenuti in Spagna da Telecinco. La situazione economica è migliorata, evidentemente grazie al contenimento dei costi che ha più che compensato il calo dei ricavi (la pubblicità nel 2018 è aumentata di +0,8%); una situazione del tutto diversa da quella fatta registrare nel 2016, dove si registrò un’impennata dei ricavi ma anche una consistente perdita. La posizione finanziaria netta si è quasi dimezzata, ed è ora pari al 26% del patrimonio. Da segnalare infine che il tentativo di scalata del gruppo francese Vivendi sembra definitivamente fallito.
Quale giudizio si può dare?

La situazione dell’azienda appare più che buona (pur avendo subìto l’”affronto” di essere stata scalzata dalla società Juventus nell’elenco delle principali 40 società componenti l’indice Ftse-Mib); buona se la si guarda sulla base di un arco temporale di breve periodo. La criticità si evidenzia se il giudizio si proietta su un periodo più lungo e sono gli stessi problemi che hanno tutti i broadcasters.

La televisione classica si sta ridimensionando, sempre meno telespettatori la guardano: in Italia, che peraltro è un Paese ad alto consumo di televisione, i telespettatori medi serali sono scesi di circa 3 milioni negli ultimi anni: ora sono pari al 40% della popolazione, mentre pochi anni fa ammontavano al 45%. La gente non privilegia altri consumi, semplicemente vede un’“altra televisione”. Quale? I programmi possono essere gli stessi, spesso sono spezzoni di programmi che si vedono sul classico televisore, ma adesso vengono visti sui vari device. È questa altra-televisione che si sta imponendo. La soluzione per i vecchi broadcasters è quella di essere presente in entrambi i segmenti: producendo e distribuendo programmi di successo che partendo dal classico televisore circolano nella società, creando il desiderio di essere visti e/o rivisti sul web. Operazione, come si può intuire, non semplice!

Un altro fattore da considerare è che la pubblicità, peraltro in crisi, si sta spostando dalla tv, da 50 anni il mezzo pubblicitario più importante – circa il 60% di quota della torta pubblicitaria fino a 15 anni fa – al web. È prevedibile che entro pochi anni il digitale superi la tv.

I problemi di Mediaset, come di tutte le altre imprese televisive, sono quelli di riuscire a fare questo percorso, cioè allargare i confini del mercato anche dal punto di vista territoriale. Non a caso per quanto riguarda Mediaset si ipotizzano accordi con altri importanti player europei. Chi rimane fermo occupando posizioni anche di rilievo nel segmento della tv generalista rischia alla lunga di soccombere, perché quel segmento inevitabilmente si restringe.

Nel mercato televisivo vi sono tre soggetti egemoni che detengono ciascuno circa il 30% dei ricavi complessivi. Si è creata una sorta di stallo fra Rai, Mediaset e Sky. Nessuno di essi ha la forza per scalzare gli altri, mentre non vi sono avvisaglie che qualcuno regredisca. Per cui è probabile che la situazione rimanga ancora stabile; ma il mercato si è allargato, nuovi soggetti sono arrivati, come Netflix, e nel web i nuovi “padroni” sono le Ott, le grandi piattaforme d’oltreoceano che forniscono servizi e contenuti video. Mediaset e Rai (Sky sembra già proiettata sul futuro) dovranno reinventarsi, operazione non certo facile.

Si ritorna a parlare del conflitto d’interesse (sarebbe più corretto usare il termine al plurale). Questo è positivo: non lo sarebbe se qualcuno pensasse di colpire in tal modo chi nel passato ne ha goduto ampiamente. Si ricordi che la soluzione dei conflitti d’interesse è innanzitutto nella neutralità del governo sulle dinamiche del mercato.

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