Devo tornare sulla questione del sistema minorile che avevo affrontato col mio precedente intervento. Il caso era la commissione di inchiesta sulle case famiglia annunciata dal ministro Matteo Salvini: io ampliavo il tema e sostenevo (sostengo) che da riformare è un intero sistema – che comprende vari attori – del quale la case famiglia sono elemento finale e clamoroso, ma non unico. La questione è evitare di affrontare un tema così importante e sentito con atteggiamenti che potrebbero suonare come di pura propaganda e comunque non risolutivi.

Bene, come è noto a chi legge ilfattoquotidiano.it, il mio post ha suscitato la reazione del Presidente nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, che ha rilevato una “chiamata in causa” della sua categoria. Ho scelto di replicare qui e non direttamente alla sua lettera, perché non mi interessa la polemica personale. Preferisco tornare al merito e per farlo – in realtà – mi basterebbe invitare a rileggere quel che avevo scritto: respingevo l’idea di scaricare tutto su un presunto “mostro” (le case famiglia), ricostruivo la complessità del meccanismo, dei ruoli e delle responsabilità. Responsabilità, non necessariamente colpe!

Torno a farlo. Il tema è il presunto meccanismo affaristico delle case famiglia, accusate – spesso in modo indiscriminato – di agire secondo ripugnanti logiche di profitto. La questione è – per semplificare molto – “andarci piano”. Vi sono casi di case famiglia ai confini della realtà (ne ho riportati alcuni che, sono certo, non fossero noti ad alcuno), ma altre gestite in modo ineccepibile nelle loro funzioni di isolare il minore da condizioni famigliari per lui devastanti.

La casa famiglia è poi l’ultimo anello di una catena che condivide compiti e responsabilità. Insieme alle case famiglia, periti nominati da tribunali, periti di parte, giudici stessi e ancora più a monte i servizi sociali, i cui rilievi sono resi determinanti dal sistema stesso. Un ruolo determinante coincide con una determinante responsabilità e altrettanto determinanti divengono gli eventuali errori. Non si tratta di una mia valutazione o di un pregiudizio personale, ma di un dato di fatto.

Non è questo il luogo per riportare casi specifici, ma potrei tranquillamente farlo e farei saltare il coperchio a un ribollio enorme di rivendicazioni dolorosissime: per averne un assaggio basta in realtà aprirsi anche ai social, dove vittime dell’intero sistema in ogni momento raccontano i propri calvari. Certo, va evitato lo sport perverso dell’impallinamento di singole categorie: il sottoscritto – in quanto giornalista – ne sa qualcosa. Ma so anche che quando una categoria è oggetto di simili ondate di critiche l’errore peggiore che si possa commettere è arroccarsi in difesa, respingendo con sdegno e denunciando – magari – chissà che complotto. In genere vuol dire proprio che la situazione – a furia di arroccarsi – è un poco sfuggita di mano e che sono mancati segnali di trasparenza.

In questo spazio ho l’abitudine di non essere un semplice blogger che esprime commenti, ma di riferirmi a fatti. Come ho detto, lo farei volentieri, riportando decine di casi i cui protagonisti (o vittime) mi hanno offerto non solo i loro racconti, ma soprattutto montagne di documenti, violando però doveri di riservatezza e senso di responsabilità. Un paio di esempi, comunque, posso portarli, anche perché mi è stato imputato di generalizzare.

Il primo è il caso che ho già trattato del piccolo Marco di Verona, bambino che in tre anni ha vissuto quattro diversi collocamenti. In un passaggio dell’ultima, decisiva sentenza del Tribunale dei minori di Venezia, che ha affidato il bimbo proprio ad una casa famiglia, si legge tra i virgolettati estratti dalle relazione dei servizi sociali (che ho avuto modo di consultare) che la nonna di Marco viene ritenuta inadeguata a occuparsi del piccolo perché “dovrebbe decidere se esserci per la figlia (ex tossicodipendente) o per il nipote”. Non si tratta di un rilievo da sottoporre al giudizio di un tribunale, ma di un giudizio già espresso, oltretutto davvero discutibile sotto il profilo umano e di realismo affettivo.

Un secondo esempio lo porto in prima persona: la mia compagna, coinvolta in una complicata e infinita guerra col padre di suo figlio e conseguentemente seguita dai servizi sociali, chiese che io venissi ascoltato per portare una testimonianza. Mi fu letteralmente chiusa la porta in faccia sostenendo che “ai servizi sociali interessavano solo i genitori”. Salvo poi verificare che erano state accolte e diffusamente sentite persone da parte paterna, le cui dichiarazioni – naturalmente – sarebbero state riportate nella relazione finale.

Casi, certo. Solo casi. Errori di singoli che però non hanno trovato alcuna censura. Eppure, malgrado questo, mi sono guardato e mi guardo bene dall’attaccare una sola categoria e continuo a sostenere che vada riformato l’intero sistema minorile, che presenta troppi punti critici. Proprio i professionisti che ne fanno parte dovrebbero condividere questa mia tesi: per il bene dei minori nel cui interesse operano e anche per la loro stessa reputazione.

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