delle Ricercatrici, studentesse, docenti e borsiste precarie del Coordinamento Ricercatrici e Ricercatori NON Strutturati

Sapevo che c’era qualcosa di strano. Lo sentivo. Ma avevo lo stesso continuato a lavorare senza sosta. Dieci, anche dodici ore al giorno. Senza dar peso a quelle preoccupazioni che cacciavo via dalla mente. Poi, il momento esatto. Lo ricordo come fosse ora. Prima un rivolo sottile di sangue. Poi era come se qualcuno avesse aperto un rubinetto. Un aborto spontaneo. Una mattina come tante in università. Perché, forse, non mi ero fermata un attimo. Perché non avevo detto nulla, altrimenti il lavoro con le sostanze tossiche non avrei più potuto farlo e se non lo facevo io al prof. sarebbero girate. Ma sai che ti dico? Meglio così. Come avrei potuto fare, da sola, con contratti precari? Col rischio di perdere, poi, pure quelli?

Il prezzo della precarizzazione e della femminilizzazione dell’università è anche questo. Se vuoi tenerti il posto – o avere la possibilità di ottenerlo – devi imparare ad accettare le condizioni che ti vengono imposte, e fare ed essere sempre qualcosa in più dei tuoi colleghi. Più gentilezza, più remissività, più disponibilità. Ma anche meno: meno ambizione, meno autonomia, meno autorevolezza. Stare ai nostri posti, accettare ogni richiesta, non porre problemi. Non siamo libere di conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Siamo sotto ricatto nello scegliere tra il lavoro, una carriera, dove ce ne fosse l’opportunità, e un figlio.

Traiettorie diverse da quelle degli uomini: lavoro di cura e maternità, ancora in gran parte sulle spalle delle donne, continuano a essere i freni materiali al riconoscimento equo del nostro lavoro scientifico durante le selezioni e nell’assegnazione di posizioni di responsabilità. Ma non solo: per noi precarie la riproduzione paga anche lo scotto dell’assenza di tutele e welfare uguali per tutte.

Se infatti alle docenti con una posizione stabile sono (ancora) riconosciuti i diritti legati alla maternità, le precarie possono accedere all’indennità solo se hanno lavorato con continuità nei mesi precedenti, hanno diritto solamente a tre mesi di congedo parentale e godono del bonus baby-sitter solo per tre mesi invece di sei. E questo vale per alcune, le più fortunate, perché ci sono contratti che non prevedono neppure queste minime tutele. Stesso discorso per i padri: gli assegnisti – e solo loro – hanno diritto al congedo parentale solo in casi estremi come la morte o la grave infermità della madre. Si riproducono così gli stereotipi di genere che dipingono la genitorialità come un affare prettamente femminile. La recente proposta del governo di lasciare “libertà” alle donne di scegliere se e quando usufruire del periodo di maternità, poi, è un insulto a chi questa libertà non può averla e un ossimoro crudele: in condizioni di ricattabilità la cosiddetta libertà è una chimera formale utilizzata come arma per ridurre le lavoratrici all’autosfruttamento e al silenzio.

L’8 marzo è il giorno dello sciopero globale delle donne. Uno sciopero politico lanciato tre anni fa dal movimento femminista Ni Una Menos contro la violenza maschile sulle donne, a cui partecipano milioni di (trans)donne in tutto il mondo. Attraverso lo sciopero le donne hanno occupato lo spazio pubblico e liberato quelli privati, costruendo pratiche di lotta e liberazione contro la precarietà, la subordinazione, il ricatto, la solitudine e l’individualizzazione imposte dalle politiche neoliberiste, spezzando l’indifferenza e la normalizzazione delle molestie e delle violenze sessuali che subiscono sui luoghi di lavoro e nelle relazioni intime, parentali e amorose, e interrompendo grazie al tweet storm #metoo il silenzio che le occultava.

#Metoo ha scoperchiato ciò che ognuna di noi sapeva già, ma che forse ancora non riusciva a nominare: i luoghi di lavoro, le relazioni intime, lo spazio pubblico e privato che attraversiamo sono contaminati da sessismo, discriminazioni, ricatti sessuali che colpiscono la nostra libertà, le nostre carriere e la nostra autodeterminazione.

Oggi diciamo, collettivamente, basta. Unendo noi stesse, ricercatrici, studentesse, docenti e borsiste precarie contro la logica eteropatriarcale, che governa il sistema università e la società tutta, contro la guerra all’intelligenza, alla critica, alla libertà di parola e pensiero, contro l’inferiorizzazione e la squalificazione del lavoro di produzione e riproduzione di tutte. Contro tutto questo anche noi, oggi, scioperiamo.

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