È stato pubblicato in rete il 24 febbraio ma è – di diritto – una delle più belle iniziative per l’8 marzo. A produrre il video è Nike, nota multinazionale di abbigliamento sportivo. Già da tempo Nike aveva inaugurato nei suoi spot la retorica della sfida, del riscatto, dell’apparente gesto folle. Si intitolava “Dream Crazy”, lo spot diffuso in tutto il mondo lo scorso settembre. Parlava di atleti disabili, di diversità di razza, fisiche, di genere. Tutto vinto grazie al gesto sportivo: magari in assoluto normale, ma estremo rispetto al protagonista. “Non chiedere se i tuoi sogni sono folli, chiediti se sono folli abbastanza” diceva lo slogan finale.

Ora Nike lancia un messaggio tutto dedicato alla donna, alla sua sfida perenne che la vede combattere per un’uguaglianza che dovrebbe essere nelle cose e invece deve essere sempre un faticosa, difficile conquista. Mostra le immagini storiche di Becky Hammon, la prima donna ad allenare una squadra di basket in Nba. Quelle di Katerine Switzrer, la donna che nel 1967 per la prima volta partecipò alla maratona di Boston sotto falso nome. I giudici tentarono di impedirle di proseguire la gara, ma lei vi riuscì ugualmente. E poi campionesse, di sport e di vita come Serena Williams, vincitrice di 23 Grandi Slam e tornata a giocare a livelli impensabili dopo aver avuto la prima figlia.

“Se vogliono chiamarti pazza, bene – recita il testo – mostra loro cosa vuole dire. È pazzesco finché non lo fai. Fallo e basta”. Un video realizzato magistralmente, con montaggio di immagini piene di pathos. Un video commovente che restituisce l’immagine della donna costretta a essere guerriera da una società iniqua. Ce ne fossero di iniziative del genere, con questa narrazione, con questa capacità di raggiungere un pubblico mondiale e trasmettere valori, contro le diseguaglianze. Già, ce ne fossero. E soprattutto venissero – come in questo caso – da aziende che in passato hanno predicato bene, ma razzolato malissimo.

Per decenni Nike ha prodotto le sue scarpe e il suo abbagliamento in Cambogia, senza alcun controllo, grazie al lavoro massacrante e senza regole di donne, ragazzine e bambine. “Hanno tutte più di 16 anni”, dissero gli allora dirigenti della multinazionale, respingendo le accuse. Peccato che nessuno potesse verificare. Peccato che le baby operaie lavorassero – secondo le denunce il Cambodian labor organization (Clo) – per uno stipendio medio di 40 euro al mese, anche 16 ore al giorno, mantenendo intere famiglie.

Nel 2000 scoppiò lo scandalo. Nike pensò di risolvere la questione semplicemente abbandonandole. Detto, fatto: chiuse i laboratori nel Paese asiatico e lasciò a far la fame mezza Cambogia. L’alternativa, nella mentalità della multinazionale, era tra donne sfruttate e donne in miseria. Due anni dopo ci dovettero pensare i sindacati americani, insieme all’International Labour Organisation (Ilo) di Ginevra, a porre rimedio. Stabilirono in Cambogia i loro addetti ai controlli delle condizioni di lavoro e Nike dovette tornare, riaprire laboratori e stabilimenti. E riconoscere regole e principi. Solo lavoratrici maggiorenni, con salari contrattati con le rappresentanze sindacali e orari umani.

Da allora sono trascorsi 17 anni. Pochi per vincere un sistema di diseguaglianze, pochissimi per rovesciare una mentalità votata tutta al profitto. Eppure il cambiamento c’è stato. Nike ora è un’azienda che orienta tutte le sue campagne di comunicazione verso messaggi di progresso sociale. E su queste campagne investe sempre di più. E guadagna sempre di più, mentre le concorrenti che restano legate a comunicazione più classica, legata solo al gesto sportivo, perdono terreno nella classifica dei ricavi.

La morale è evidente. Il cambiamento è possibile. È possibile rovesciare una tendenza nell’arco di pochi anni, passando da una logica di sfruttamento della figura femminile perfino in età infantile al rispetto delle regole, fino a rendersi motore del cambiamento stesso. È stata capita la lezione? Non esageriamo. Nessuna conversione morale spontanea, ma il risultato della paura di perdere immagine e con essa pubblico. Si tratta dell’effetto della riprovazione sociale che in Paesi di libero mercato – come gli Stati Uniti – può mettere in ginocchio anche un colosso mondiale e indurlo a cambiare direzione.

“Chi tace acconsente” dovrebbe essere il motto non delle donne discriminate, ma di chi quella discriminazione la vede. Nel bellissimo filmato della Nike in rete in questi giorni, tra le altre donne citate e mostrate, vi sono anche immagini della velocista indiana Dutee Chand, sospettata di essere in realtà un uomo. Il commento dice: “Quando siamo troppo brave, c’è qualcosa di sbagliato in noi”. Cambierà? Può cambiare. Se in Cambogia le scarpe delle Nike non vengono più fabbricate da schiave, su una pista di atletica una donna può contare per quel che fa, non per quel che appare.

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