È di ieri la notizia che il ministro per lo Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha indicato Lino Banfi come prossimo componente dell’Assemblea della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco. Il noto attore pugliese, protagonista indiscusso delle più famose commedie sexy all’italiana degli anni 70 e 80, andrà a sostituire il documentarista e divulgatore scientifico Folco Quilici, scomparso lo scorso anno, e ricoprirà il ruolo di membro di nomina governativa nella Commissione.

La nomina è stata accolta con sorrisi di varie sfumature tra lo stupito e il divertito e lo stesso Matteo Salvini ha commentato sarcasticamente in diretta Facebook. Ma davvero tutti sono accreditati, allo stesso modo, a promuovere e rappresentare l’Italia nel mondo? Sgomberiamo il campo da possibili equivoci: Banfi non è certo l’unico membro problematico di questa Commissione. A partire ad esempio da una nostra conoscenza di lunga data, il Professor Marco Mancini, solerte smantellatore dell’Università pubblica che in questi anni si è tanto prodigato per precarizzare il mondo accademico.

In tema di cultura Lino Banfi rappresenta però la coerente interpretazione di ciò che questo governo intende per “popolare”. La sua prima dichiarazione è in perfetta sintonia con la cifra stilistica dell’esecutivo e dell’importanza data da quest’ultimo alla cultura: basta professoroni, a volte è sufficiente un sorriso. In fin dei conti, in film come La liceale nella classe dei ripetenti o nella saga di Pierino, la gente si identificava con i ripetenti, non con i secchioni. Nella calzante analogia con i plot di un genere cinematografico, in cui trame deboli e vuote si sorreggevano unicamente su scene di nudo e sessualità pruriginosa, il programma del governo in tema di università e ricerca si regge su iniziative propagandistiche e spettacolari come questa, rincorrendo i più bassi istinti del suo popolo e svilendo la cultura in ogni occasione che gli si presenta.

Sotto la maschera del cambiamento, della lotta alla casta, della valorizzazione delle competenze e del merito contro la piaga del clientelismo, l’esecutivo mira a quella che appare – perché, naturalmente, non lo è – un’identificazione a 360° (o erano 370°?) tra “gente” e governanti, fomentando e inseguendo paure, allarmi xenofobi, egoismo sociale che in tempi di crisi esplodono regolarmente, e così spostando l’attenzione dai problemi sociali reali e riducendo il dibattito politico a un tifo irrazionale carico di odio.

La delegittimazione della scienza fa parte integrante di questa strategia, una “ruspa anticulturale” che si abbatte spietatamente su tutto ciò che è considerato troppo intellettuale, radical chic. Le “guerre anti-gender”, la diffusione di fake news sulle migrazioni, l’analfabetismo di ritorno e quello funzionale, la battaglia anti-vaccini e l’antiscientismo strisciante che permea l’esecutivo fanno da sfondo all’attacco frontale sferrato contro il sistema dell’istruzione, in particolare universitario, attraverso la sua svalorizzazione. Un attacco che, alla faccia del cambiamento, è invece in perfetta continuità con i governi che hanno sancito la netta accelerazione del processo di smantellamento dell’Università pubblica: basti pensare alla nomina di Giuseppe Valditara, relatore della Legge Gelmini, a Capo del Dipartimento per la formazione superiore e la ricerca del Miur.

La totale assenza dal contratto di governo di qualsivoglia linea politica su università e ricerca si riflette in un vuoto pneumatico di idee condito da misure punitive (come il blocco delle assunzioni e la conseguente proroga della durata delle abilitazioni alla docenza) e puntellato da provvedimenti sporadici ma roboanti (il tanto sbandierato aumento dell’FFO) e iniziative spot, come nomine di discutibile opportunità quale quella della ex iena Dino Giarrusso, o l’abolizione del valore legale del titolo di studio in un paese che detiene il record negativo del numero dei laureati.

Ciò di cui avrebbe bisogno questo paese è invece l’esatto contrario: promuovere la cultura e le figure che la rappresentano con ogni mezzo, rendere il sapere fruibile e l’istruzione accessibile a tutti e tutte. Questo, riprendendo un dibattito di qualche tempo fa, vorrebbe dire far diventare la scienza democratica. E si può fare solo investendo in istruzione, università e ricerca.

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