Dai primi di agosto tiene banco un accesissimo dibattito sul disegno di legge n. 735 (cosiddetto Ddl Pillon), che vorrebbe rivoluzionare la legge 54/2006 sull’affidamento condiviso. Tanti a favore, tanti contro. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che la realtà non è uguale per tutti e che ciascuno di noi ne costruisce una propria a partire da una lettura soggettiva. Per fare un esempio semplice, ma potente, prendiamo il gesto della vittoria, fatto con indice e medio aperti su una mano chiusa, e mostriamolo a qualcuno, chiedendogli cosa vede. Le risposte potranno essere molteplici: il gesto della vittoria, il segno della pace, (a mano girata) un insulto, il numero due oppure semplicemente due dita. Il mio esercizio di oggi sarà dunque quello di provare a vedere le cose in modo oggettivo, punto per punto.

1. Riguardo alla mediazione familiare, l’articolo 3 prevede che il suo esperimento sia “condizione di procedibilità secondo quanto previsto dalla legge, qualora nel procedimento debbano essere assunte decisioni che coinvolgano direttamente o indirettamente i diritti dei minori“.

2. Sul concetto di obbligatorietà mi ero già ampiamente espresso in un precedente post. È tuttavia evidente che, seppure giuste, la degiurisdizionalizzazione in materia di famiglia e l’espansione degli spazi di autonomia privata dovrebbero essere progettate un po’ meglio. Perché se è sensato guardare ai Paesi più avanti di noi, altrettanto lo è chiedersi se nel nostro vi siano identiche (o almeno simili) condizioni. Per fare un raffronto concreto: in Finlandia la mediazione familiare è obbligatoria. La pianificazione generale, il monitoraggio e il controllo sono affidati agli uffici provinciali dello Stato, sotto la supervisione del ministero degli Affari sociali e della Sanità, e della sua organizzazione presso il Comune è incaricato il consiglio di Social Welfare municipale.

In Italia, invece, un sistema strutturale pubblico in grado di garantire una presa in carico di questo tipo non esiste. Appena nati, i servizi di mediazione familiare sono già destinati a morire per effetto dei continui tagli al comparto sociale. Servirebbe perciò il coraggio di riscrivere l’articolo 24, perché pensare di proporre un modello simil-europeo, prevedendo che “dall’attuazione della (…) legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, è pura follia. L’audacia dev’essere sempre sostenuta da una certa dose di concretezza, altrimenti è gratuita e fine a se stessa.

3. Riguardo ai tempi paritetici l’articolo 11 prevede che, “salvo diverso accordo tra le parti, deve in ogni caso essere garantita alla prole la permanenza di non meno di 12 giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre”. Esempio semplice e d’immediata comprensione: se un figlio passa l’80% del tempo con la madre e il 20% con il padre, impara che il genitore di riferimento è la madre. Analogamente, a parti invertite, accadrebbe il contrario. Va da sé che i tempi paritetici sono la soluzione più equilibrata. E non lo dicono solo la logica e il buonsenso, ma anche numerosi studi internazionali.

4. Riguardo al mantenimento diretto lo stesso articolo prevede anche che “nel piano genitoriale dev’essere indicata (…) la misura e la modalità con cui ciascuno dei genitori provvede al mantenimento diretto dei figli, sia per le spese ordinarie che per quelle straordinarie, attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa, in misura proporzionale al proprio reddito secondo quanto previsto nel piano genitoriale, considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) le risorse economiche di entrambi i genitori; 3) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.

L’obiettivo del mantenimento diretto è far sì che i figli ricevano un accudimento continuativo da tutti e due i genitori, in modo da poter constatare la partecipazione pratica ed economica di entrambi ai loro bisogni. Ma siamo sicuri che il passaggio dalla contribuzione unica (assegno di mantenimento) a quella per capitoli di spesa (mantenimento diretto) sia la strada più efficace? “Dobbiamo spegnere gli incendi”, ha detto Simone Pillon a Mattino Cinque, riferendosi all’obiettivo principale del disegno di legge. Ma, in tutta onestà, a me sembra che sul fuoco finisca più benzina che acqua, perché è indubbio che discutere più cifre (capitoli di spesa) sia più complicato che discuterne una (contribuzione unica). Più che eliminare l’assegno a carico dei padri, sarebbe forse meglio prevederne un secondo a carico delle madri, quantificato in base al costo medio di beni e servizi per i figli, da dividersi tra i genitori in misura proporzionale ai rispettivi redditi e da versarsi separatamente su libretto di risparmio o conto corrente bancario intestato al minore. Il versamento bilaterale permetterebbe una gestione equilibrata – e soprattutto reciprocamente controllata – del denaro, senza il rischio di facilitare i padri nel sottrarsi alle proprie responsabilità economiche e le madri nello speculare sull’assegno di mantenimento unilaterale.

5. Riguardo alla casa familiare sono due i passaggi dell’articolo 14 che meritano un commento. Primo comma: “Fermo il doppio domicilio dei minori presso ciascuno dei genitori (…), il giudice può stabilire nell’interesse dei figli che questi mantengano la residenza nella casa familiare, indicando in caso di disaccordo quale dei due genitori può continuare a risiedervi. Quest’ultimo è comunque tenuto a versare al proprietario dell’immobile un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato”.

L’Istat parla chiaro: indipendentemente dalla proprietà, oggi la casa familiare è assegnata alle madri nel 60% dei casi, percentuale che sale al 69% per quelle con almeno un figlio minorenne. Ne consegue che i padri non possano più risiedervi, continuino comunque a farsi carico dei relativi oneri (mutuo su tutti) e, nel contempo, siano costretti a ricercare una soluzione abitativa alternativa (con un ulteriore aggravio di costi). Quindi giusta l’introduzione di un indennizzo a favore del proprietario dell’immobile, a patto che sia anche equa. Equità che non può esistere con la logica del “comunque”.

Secondo comma: “Le questioni relative alla proprietà o alla locazione della casa familiare sono risolte in base alle norme vigenti in materia di proprietà e comunione”. La questione rappresenta un falso problema, dal momento che il genitore non può continuare a risiedere nella casa familiare nei soli casi di ovvia logica, ovvero quando non ne è proprietario, quando ne ha alcun titolo o quando, pur avendone uno specifico, lede palesemente il diritto dell’altro. Se vogliamo fare le cose secondo giustizia, è così che dev’essere. Altrimenti che senso ha parlare di diritto, se questo non viene mai riconosciuto?

6. Sull’alienazione genitoriale e sugli articoli 17 e 18 (a mio parere, da riformulare in un’ottica di maggiore tutela dei minori) non ho granché da dire, se non che il tema è al contempo serio, perché dannoso, e delicato, perché strumentalizzabile. L’allontanamento dei figli può infatti certamente scaturire dai comportamenti, dalle parole e perfino dalle espressioni più o meno esplicitamente denigratorie di un genitore, ma può anche dipendere dall’incapacità di quest’ultimo d’interpretare il proprio ruolo con la medesima responsabilità, partecipazione emotiva e continuità dell’altro. In entrambi i casi spetta agli adulti – e non alla legge – il compito di far meglio. La legge può aiutare a commettere meno errori, ma non può rappresentare la soluzione a tutto.

7. Ultima rapida considerazione. Ho letto da più parti che il Ddl Pillon tutelerebbe più gli adulti che i bambini. Ma non è esattamente questo che dovrebbe fare? Non si è sempre detto che non è la separazione a generare sofferenza nei figli, bensì il conflitto tra i genitori? Bene, allora risolviamo le questioni che ne sono la causa. Il resto verrà da sé.

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