di Claudia De Martino*

Il 10 dicembre prossimo ricorrerà il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani all’Onu: settant’anni in cui la protezione dei diritti umani è certamente avanzata nel mondo, anche se non parimenti a tutte le latitudini del globo.

Molti dei conflitti aperti settant’anni fa sono ovviamente tramontati, mentre alcuni sopravvivono ancora, pur avendo cambiato completamente volto. Tra questi si annoverano la “guerra fredda” tra le due Coree, la cui rigida frontiera permane tutt’oggi invalicabile per le rispettive popolazioni, e il conflitto israelo-palestinese, che pur avendo stemperato il suo carattere violento, rimane pur sempre una questione aperta rivolta al XXI secolo. Nel 70° anniversario della Dichiarazione dei diritti umani, è bene ricordare come la testimonianza più concreta del trascinarsi di questo conflitto a bassa intensità rimangono i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, chi con condanne circoscritte e sostanziate, chi in detenzioni amministrative che possono durare anche alcuni mesi (Ordinanza militare n. 1651, art. 258).

Ad oggi vi sono circa 5493 prigionieri palestinesi detenuti a vario titolo nelle 33 carceri israeliane del Paese, ai quali si sommano alcune centinaia di detenuti amministrativi: non si tratta affatto di un record assoluto, avendo la popolazione carceraria sfiorato la vetta delle 8550 unità nel maggio del 2008, ma di un trend strutturale che si mantiene inalterato nel tempo, nonostante il conflitto abbia perso intensità e l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e Hamas nella Striscia di Gaza dispongano anch’esse di proprie prigioni. Molti dei detenuti palestinesi sono incolpati di “crimini politici”: una definizione ampia che spazia dalla partecipazione a manifestazioni di protesta, allo sconfinamento in territorio e aree interdette all’accesso dalle autorità israeliane (ingressi illeciti oltre la Linea Verde o nelle cosiddette aree C, ovvero a supervisione israeliana, designate dagli Accordi di Oslo nei Territori occupati), fino ad attentati o serie minacce alla sicurezza dello Stato.

Tra il 2005 e il 2006 il sistema carcerario israeliano ha subito una riforma per cui la gestione delle principali carceri è stata trasferita dall’autorità militare (l’esercito di difesa israeliano o Tsahal) al Servizio Israeliano per le prigioni (Shabas), un’agenzia statale di pubblica sicurezza. Il passaggio da un’autorità militare ad una civile, tuttavia, non ha facilitato l’accesso alle prigioni da parte della società civile, ma anzi ha introdotto ulteriori difficoltà per le ong che si occupano dei diritti dei detenuti, complicando le procedure per accedere liberamente e gratuitamente ai dati mensili sulla popolazione carceraria. In ogni caso, la somministrazione della giustizia in Cisgiordania rimane demandata alle corti militari di Salem, vicino a Jenin, e Ofer, vicino a Gerusalemme, e il sistema non sembra essersi molto riformato dal 1967 (anno dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania) ad oggi.

A documentarlo è un prezioso lavoro del 1976 ripubblicato in italiano dall’editore Zambon proprio in occasione del 70° della dichiarazione dei diritti umani, che coincide con quello della Nakba palestinese. Un volume intitolato “Con i miei occhi” (Felicia Langer, “Con i miei occhi. Una testimonianza della repressione di Israele contro i Palestinesi, 1967-73”, Zambon Editore, 2018) che ripercorre la testimonianza autobiografica di un’avvocatessa israeliana, Felicia Langer, strenuamente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi per oltre vent’anni, recentemente venuta a mancare (giugno 2018).

Nel suo libro-diario, Felicia racconta dell’immediato dopoguerra dopo il conflitto dei Sei Giorni (giugno 1967), quando iniziarono i processi ai “resistenti” palestinesi che non accettavano l’estensione dell’autorità israeliana ai loro territori. La Resistenza, però, non va intesa unicamente come lotta armata o violente azioni di sabotaggio, ma anche come opposizione a nuove leggi considerate ingiuste, come la Mawat, un’antica legge ottomana ripristinata dalle autorità militari israeliane nei Territori occupati secondo la quale qualsiasi pezzo di terra esente da chiari titoli di proprietà poteva essere dichiarato “morto”, ovvero confiscabile dallo Stato, anche se abitato e trasmesso per via consuetudinaria diretta.

Racconta di una società palestinese che si risveglia improvvisamente in un mondo diverso, in cui il potere è passato dai notabili arabi locali, sudditi della monarchia giordana, ad autorità militari straniere che processano molti Palestinesi, soprattutto giovani, solo perché percepiti come una potenziale minaccia al nuovo ordine che l’esercito sta imponendo in quei territori a dispetto del diritto internazionale. E racconta di una donna israeliana molto politicizzata che si schiera fermamente a favore dei detenuti palestinesi e contro l’occupazione, insieme ad altri sparuti compagni comunisti del Rakah, per lo più arabo-israeliani.

È impressionante rileggere la semplicità con cui la Langer riporta le storie e le parole dei suoi assistiti, senza alcun artificio letterario ma nella mera nudità dei fatti.  Una storia tra tutte è quella di un giovane palestinese, Hanna Amira, che viene arrestato a Gerusalemme est appena diciottenne con l’accusa di appartenere a un’associazione illegale vicina all’allora emergente partito di al-Fatah e condotto nella temibile prigione sotterranea situata al centro della città, chiamata Moskovia. Alla domanda dell’avvocatessa Langer sui suoi presunti crimini, il giovane imputato risponde con candore: “(Io e i miei 7 compagni) volevamo organizzare la resistenza. Avevamo creduto che ci fosse la democrazia, che fossero consentite le manifestazioni, gli scioperi, il volantinaggio” (Langer, 2018: p.60). E ancora: “Sapevamo che in Israele c’erano partiti che erano contro l’ultima guerra: non credevo che agendo nello stesso modo sarei andato incontro a persecuzioni” (Langer, 2018: p.71).

Cinquant’anni dopo, i Palestinesi di oggi non mostrerebbero mai la stessa ingenuità sulla natura benevola dell’occupazione: sanno che le corti militari li processano anche per reati minori come tirare per frustrazione una pietra ad un convoglio militare, e sanno anche che l’Autorità Nazionale Palestinese, che è il loro organo di autogoverno, li consegna alle autorità israeliane o li tortura essa stessa, se colpevoli di crimini contro la sicurezza di Israele o dell’Anp.

Allo stesso tempo, nonostante il conflitto israelo-palestinese continui a mietere i suoi prigionieri e talvolta anche le sue vittime, guerre ed episodi di tortura molto più cruenti e sistematici si consumano appena poco più a nordest, in Siria, o più a sudest nello Yemen, senza che queste terribili violenze quotidiane riscuotano più alcun interesse mediatico.

La Dichiarazione dei diritti umani rimane un traguardo dell’umanità intera da celebrare nel suo 70° anno, ma la sua realizzazione rimane ancora lontana dal compiersi.

* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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