Vi ricordate la storia dei “limiti dello sviluppo“? Era uno studio pubblicato nel 1972 a cura del Club di Roma, un gruppo di scienziati e pensatori fondato da Aurelio Peccei nel 1968. Uno studio rivoluzionario, sia come metodi che come conclusioni: non era la prima volta che qualcuno faceva notare che una crescita infinita non è possibile su un pianeta finito, ma era il primo studio scientifico quantitativo che cercava di determinare quali fossero i limiti e che traiettoria l’economia umana avrebbe potuto seguire prima e dopo averli raggiunti.

Purtroppo, lo studio non fu capito: molti lo presero semplicemente come una profezia di sventura e pochissimi si resero conto del messaggio di speranza che conteneva. Lo studio ci diceva come fare per evitare il disastro che ci sarebbe caduto addosso se avessimo continuato a crescere fino a oltrepassare i limiti. Lo studio fu attaccato, criticato, demonizzato, ridicolizzato, tutto su basi politiche e ideologiche – ma è così che vanno le cose nel nostro mondo (e incidentalmente il titolo fu anche tradotto male in italiano: quello originale era “I limiti alla crescita“, non allo sviluppo).

Dopo tutti gli attacchi ricevuti, poteva sembrare che il Club di Roma fosse sparito dalla faccia della Terra, un dinosauro colpito da un asteroide ideologico. Invece no, il Club ha continuato a esistere e a lavorare e il mese scorso ha celebrato il suo cinquantenario a Roma all’Istituto patristico Augustinianum, con un convegno molto partecipato dal pubblico che ha visto la presenza di esponenti della scienza e della politica.

Il cinquantenario del Club di Roma è stato l’occasione per rivedere e ripensare la storia dello studio sui “limiti dello sviluppo,” che ormai si approssima al cinquantenario anche quello. A fare la valutazione ci ha pensato Jorgen Randers, scienziato norvegese, uno degli autori originali del rapporto del 1972, che ha parlato al convegno. Esaminando gli scenari del rapporto, Randers ha mostrato come lo studio descrivesse abbastanza bene la traiettoria del mondo reale nell’arco dei passati 50 anni o quasi. Dei vari scenari proposti, quello che ha funzionato meglio è quello che considerava l’inquinamento come il fattore negativo principale che avrebbe potuto portare al collasso del sistema industriale e della popolazione umana. Questo – ovviamente – se non avessimo fatto nulla per limitare l’inquinamento, soprattutto in forma di riscaldamento globale. E, sfortunatamente, abbiamo fatto ben poco, almeno finora.

Così, dopo tanta polemica, stiamo assistendo a un ritorno dei concetti che Aurelio Peccei aveva esaminato per primo già negli anni 60: il fatto che l’umanità si trova a vivere su un pianeta limitato, un'”astronave terra” che viaggia nello spazio e del cui buon funzionamento siamo tutti responsabili. La grande intuizione di Peccei era che avremmo dovuto gestire questo nostro pianeta-astronave tutti insieme e con saggezza, evitando di combatterci fra di noi per accaparrarsi quello che ci serve. Purtroppo non lo abbiamo fatto e siamo di fronte a una grande corsa per accaparrarsi quel poco che resta delle risorse naturali – in particolare in termini di combustibili fossili – senza preoccuparsi degli enormi danni in termini di riscaldamento globale che le emissioni di gas serra stanno già causando e che causeranno sempre di più nel futuro.

C’è ancora tempo per invertire la rotta? Forse no, ma dobbiamo perlomeno provarci.

Nota: Ugo Bardi è membro del Club di Roma

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