Cinema

Festa del Cinema di Roma 2018, “come si racconta una storia vera?” A Private War, Diario di tonnara e American Animals sono la risposta

Il biopic A Private War di Matthew Heineman si fa carico di raccontare vita e carriera della cronista di guerra americana Marie Colvin, mentre Diario di tonnara è una riflessione lirica e struggente su un mondo (quasi) perduto. Il trittico odierno si chiude poi con l’opera indiscutibilmente più coraggiosa e interessante di giornata, American Animals appunto

di Anna Maria Pasetti

Come raccontare una storia vera? Il cinema ne è ontologicamente ossessionato e l’odierno programma della Festa del Cinema di Roma offre un trittico di opere che ne esemplificano tre modelli diversamente efficaci. C’è chi opta per una classica rappresentazione verosimile del reale, c’è chi ama alternare materiali d’archivio con nuove riprese, e c’è infine chi estremizza questa posizione tentando vie sperimentali di dialogo fra il presente e il passato: se quest’ultima scelta rischia in termini di comprensione per il grande pubblico, è indubbio che favorisca il sano gusto per la ricerca di nuove frontiere da abbattere per il linguaggio della Settima arte.

Procedendo dal modello più lineare a quello più audace applicati dunque nel trittico odierno, il biopic A Private War di Matthew Heineman si fa carico di raccontare vita e carriera della cronista di guerra americana Marie Colvin mettendo davanti alla macchina da presa una trasfigurata Rosamund Pike alle prese con le imprese giornalistiche di Colvin fatalmente riflesse nei tormenti personali. Il racconto della guerra viene quindi a coincidere con lo sguardo della mediatrice/cronista, una delle migliori e più coraggiose di sempre, capace di “vedere” fra le righe dei fatti e “leggere” in esse il senso di una Storia che andava facendosi. Più interessante per il suo oggetto che non per la modalità espressiva adottata (benché Pike sia alla sua migliore interpretazione), A Private War non aggiunge alcun elemento di novità rispetto al classico biopic ma tale scelta narrativa è con evidenza dettata dalla volontà di raggiungere il maggior pubblico possibile.

Assai diverso appare il criterio adottato per il documentario d’esordio del sardo Giovanni Zoppeddu, recatosi in Sicilia ad indagare la memoria delle antiche tonnare. Ne è conseguito Diario di tonnara, una riflessione lirica e struggente su un mondo (quasi) perduto e una frontiera scomparsa che identifica nella vecchia pesca dei tonni la metonimia di un’umanità a rischio di oblio. Il cinema documentario, in questo caso, si incarica di preservare la memoria di quest’universo così unico nel suo genere facendolo dialogare col presente. Al centro, appunto, è la cultura della tonnara che porta nel proprio Dna un apparato di parole, gesti, tradizioni comprese solo da chi la praticava ma altresì trasversale a tutti i territori dove era in uso. L’ispirazione nasce dal diario del sub Ninni Ravazza che aveva lavorato nella tonnara di Bonagia: una perla rinvenuta dai fondali marini capace di far rivivere suoni, colori e sensazioni in via di “estinzione”.

E ben dice lo stesso Ravazza identificando nella categoria del “terremoto antropologico” la mutazione in atto rispetto a quei piccoli/grandi mondi antichi. “Il dato meraviglioso è che i tonnaroti si capiscono fra loro a prescindere dalla provenienza e cantano antichi cori fatti da parole che non comprendono, e di cui non si conosce la provenienza. In altri termini, essi sono portatori inconsapevoli di una sapienza antica e misteriosa che non possiamo cancellare”. Il film utilizza una selezione del mastodontico archivio dell’Istituto Luce (che ai primi del 2019 lo porterà nelle sale) mescolandolo a nuove riprese condotte su ciò che resta di quel mondo, di quell’Italia che è stata sostituita da altri modelli industriali e produttivi “ma non deve né può scordarsi di quegli uomini scavati dalla rughe, di quelle dimensioni d’altri tempi che hanno fatto la nostra Storia” aggiunge il giovane regista Zoppeddu.

Il trittico odierno si chiude con l’opera indiscutibilmente più coraggiosa e interessante di giornata, almeno in termini di lavoro linguistico. Si tratta di American Animals, esordio nel cinema “di finzione” (termine da prendere con le pinze..) del britannico Bart Layton. Più curioso per “come racconta cosa”, il film si concentra su un vero tentativo di rapina avvenuto una decina di anni fa da parte di alcuni studenti della Kentucky University: dopo un lungo carteggio con i ragazzi mentre erano rinchiusi scontando la loro pena, Layton imbastisce un progetto che mette in scena degli attori nei loro panni e “contestualmente” i veri protagonisti che commentano (criticamente) i loro fatti del passato. Si tratta di una narrazione “da contrappunto” fra passato e presente, un meta-racconto dove ambedue le sponde sono drammatizzate. Anche perché il visibile non sempre corrisponde al reale “essendo frutto della memoria, e questa non è sempre affidabile” spiega Layton. American Animals è dunque una risposta plausibile (e certamente intrigante) sulle possibili forme di narrazione quando applicate a storie realmente accadute, un tentativo di sospendere l’adesione/credibilità del visibile affidando gran parte della Verità al fuori campo, a ciò che resta nell’incolmabile limbo tra i fatti e il loro racconto. Qualcosa che tanto Marie Colvin quanto gli antichi tonnaroti (ri)conoscevano bene: l’una consapevolmente e gli altri inconsciamente.

 

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