Credete nella vita dopo la morte? Un tempo questa sarebbe stata una domanda esclusivamente di carattere religioso, oggi non lo è più. Oggi è una domanda ad alto contenuto tecnologico, perché sono sempre di più coloro che sperano, grazie alla tecnologia, di sopravvivere alla morte biologica. Entrando nei computer, diventando intelligenze artificiali in grado di interagire con le persone con cui erano in contatto in vita, dispensando consigli e opinioni. Se avete visto il film Trascendence del 2014 diretto da Wally Pfister e interpretato da Johnny Depp potete avere un’idea precisa di quello di cui stiamo parlando.

L’argomento torna alla ribalta perché Hossein Rahnama, imprenditore e ricercatore presso la Ryerson University di Toronto, sta lavorando a un’applicazione chiamata Augmented Eternity, che ha l’obiettivo di creare una versione digitale di sé, capace di interagire con altre persone dopo la morte.

Hossein Rahnama. Crediti: MIT

 

Il “come” è la parte più interessante, perché anche se non ci abbiamo mai riflettuto, stiamo già accumulando i dati che si potranno usare un giorno per costruire la nostra personalità digitale. Quelli avvantaggiati in questo senso sono i più giovani, i “millennial” come vengono definiti, che stanno mettendo in rete abbastanza informazioni da consentire in futuro la creazione di una propria identità digitale dopo la morte.

Fermatevi a riflettere: ciascuno di noi genera ogni giorno una quantità impressionante di dati, e oggi la potenza di calcolo e le risorse di archiviazione sono sufficienti per poterli raccogliere e gestire. Se tutto questo materiale, che in fin dei conti è “umano”, venisse dato in pasto a un algoritmo di apprendimento automatico sufficientemente evoluto, sarebbe possibile “insegnare” al computer la nostra personalità, o almeno una parte di essa? L’idea è che con i dati sufficienti il computer potrebbe comunicare e interagire con altre persone come avremmo fatto noi di persona.

Foto: Depositphotos

 

Questo non significa che non manchino gli ostacoli. Il più grosso è che per costruire un’identità digitale non è sufficiente sapere che la persona abbia detto “qualcosa”. Bisogna avere la capacità di contestualizzare quello che ha detto, semplicemente perché “siamo estremamente diversi quando parliamo con persone diverse […] Siamo praticamente come ventimila personalità contemporaneamente”. L’affermazione è della sviluppatrice russa Eugenia Kuyda, che si è scontrata con questo problema quando ha cercato di creare una rappresentazione digitale del suo migliore amico defunto, Roman Mazurenko. Ha radunato tutto quello che ha raccolto su di lui in una rete neurale, e ottenuto una personalità per sua stessa ammissione non molto precisa o lucida, anche se quando rispondeva alle domande spesso sembrava davvero l’amico defunto.

La sfida di chi lavora a progetti simili quindi non è raccogliere informazioni, ma riuscire ad adattare la conversazione dell’identità digitale al contesto in cui viene effettuata, dando al computer sentimenti, sensibilità e carattere, oltre che le conoscenze.

Se questa prospettiva vi entusiasma, quindi, sappiate che siamo sulla buona strada ma che la ricerca non è ancora finita. Se state inorridendo e ritenete che questa prospettiva sia macabra, prima di dare un giudizio definitivo tenete conto che l’applicazione di una tecnologia simile può avere risvolti utili anche quando le persone sono ancora in vita. Un esempio? Potreste farvi assistere dall’avatar di un avvocato di fama mondiale, pagando una parcella molto più bassa di quella della consulenza in carne e ossa. Potreste avere la diagnosi di un luminare della medicina dando in pasto la vostra cartella clinica al suo “io” digitale.

Foto: Depositphotos

 

Le prospettive sono moltissime, e l’unico denominatore comune è l’etica. L’esigenza di stabilire una normativa chiara sui nostri resti digitali e sull’impiego che si potrà farne da parte di aziende e persone, perché è evidente che tutelare la nostra privacy quando siamo in vita nel lungo termine non sarà più sufficiente.

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