C’erano una volta gli intellettuali, una categoria di scienziati, studiosi, insegnanti, artisti, giornalisti magari non così numerosi come oggi e che contava qualcosa nella storia della società, sapeva contrastarne le tendenze distruttive e autodistruttive, discutere le soluzioni adottate dai politici per risolvere i problemi più gravi e impellenti, e finire a volte in galera, per aver difeso idee invise al potere espresso dalla maggioranza dei cittadini.

Oggi, invece, è radicalmente cambiato il modo in cui la cultura incide nella mentalità comune: se, per un verso, sono mutate le forme in cui la cultura stessa può essere comunicata e diffusa, per l’altro, diversa è la percezione del suo ruolo nella società. E se di intellettuali si parla oggi con sospetto o con un mezzo sorriso, è perché la cultura è stata mercificata: nell’odierna civiltà dello spettacolo, la cultura è assoggettata all’industria del divertimento, dovendo quindi intrattenere, distrarre, illudere. Esattamente il contrario di quanto faceva prima che la maggioranza delle persone cominciasse a detestare di pensare.

Ovvio, dunque, che parlare alla pancia della gente sia molto più produttivo di consenso che parlare alle loro teste. Ne costituisce prova inequivocabile la querelle divampata a seguito degli arresti domiciliari disposti nei confronti di Domenico Lucano, sindaco di Riace, accusato dalla Procura di Locri dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti.

La polemica vede contrapposti da un lato coloro che plaudono (a prescindere) all’iniziativa dell’autorità giudiziaria della Locride nei confronti del “sindaco diventato un po’ il simbolo dell’Italia che accoglie” e dall’altro chi, invece, (anche qui senza se e senza ma) censura quell’iniziativa affermando lapidariamente che “Mimmo Lucano ha fatto politica nel solo modo possibile in un Paese che ha leggi inique: con la disobbedienza civile, l’unica arma per difendere i diritti di tutti”.

Lungi da me entrare nel merito della vicenda giudiziaria, poiché a tal fine occorrerebbe conoscere gli atti sulla cui scorta esclusivamente si potrebbero ricostruire i fatti e predicarne il valore, ma quel che stimola la mia riflessione è il problema, fra i più gravi della filosofia giuridica, che s’agita al fondo dell’incandescente polemica, se cioè la legge debba sempre essere rispettata.

Gli intellettuali d’antan – alieni alla drammaticità di Giovanni da Salisbury allorché giustificava il tirannicidio, bensì con la pacatezza di un Tommaso d’Aquino, il quale, uomo essenzialmente ragionevole e preoccupato, in sede politica, del benessere della società, non voleva che in nome del diritto naturale si disobbedisse alla legge positiva, anche ingiusta, e che si compromettesse la pace con la ribellione al tiranno, che poteva procurare un male superiore alla tirannide stessa – avrebbero subito colto come dietro alla contestazione dell’ordine, cioè dietro la resistenza, compiuta in nome di valori diversi da quelli della legge positiva, c’è sempre, o comunque molto spesso, un motivo irrazionale o ideologico nel significato marxiano.

No si può seriamente pretendere, per contro, che gli odierni intellettuali da talk show – il cui scopo è far fare una figura da cani agli altri, cercando ognuno d’apparire più bravo, più spiritoso, più autorevole, impegnati, dunque, in una rissa permanente, fatta di persone che si interrompono, si parlano addosso, qualche volta si insultano, sempre si deridono -, possano cogliere, senza arrivare a pensare, dio ne liberi, a quella dei monarcomachi, che la stessa resistenza di Antigone si richiama a un dato religioso; o possa essere addirittura vista, come intuito da Sartre, quale espressione degli interessi dell’aristocrazia, preoccupata di conservare il proprio patrimonio morale privilegiato davanti alla minaccia di livellamento egualitario rappresentata da Creonte.

Diciamocelo senza ipocriti infingimenti: se ogni discorso vertebrato deve muovere da premesse esatte, nei fenomeni normativi conviene distinguere un criterio formale – aspetto appartenente alla teoria pura delle norme -, il rapporto di forze fra detentori del potere e sudditi – appartenente alla politica -, il meccanismo desiderio -ripugnanza, appartenente alla psicologia – e, finalmente, il giudizio del suddito sull’establishment – appartenente all’ideologia della giustizia, ossia al tentativo più o meno consapevolmente truffaldino di presentare una preferenza emotiva come discorso verificabile.

La legge, peraltro, è valida in quanto conforme a certe regole di produzione giuridica; efficace se ottiene un minimo d’obbedienza; giusta nella misura in cui corrisponde a certi modelli ideologici naturalmente relativi. I cattivi pensatori confondono le tre questioni. Che in qualche caso la confusione sia però voluta, si vede dai sermoni di chi sostiene che la legge ingiusta non è una legge. I meno maldestri sanno di dire una cosa insensata, ma la dicono per ovvie ragioni pratiche: se spieghi ai sudditi che non è una legge, puoi indurli più facilmente a disubbidire.

La configurabilità del diritto di resistenza, comunque, viene sempre più contestata, se non addirittura negata dai grandi teorici dello Stato di diritto. In effetti, la presenza di meccanismi giuridici e politici – separazione dei poteri, garanzia dei diritti, principio di legalità, riconoscimento delle minoranze -, volti a prevenire possibili abusi da parte del potere politico ha portato numerosi pensatori, a partire da Kant, a negare la configurabilità di un autonomo diritto di resistenza o, comunque, a ridurlo a una sorta di diritto-dovere di conservazione della Costituzione o dei principi politici propri dello Stato liberale.

Sempre attuale è, dunque, l’insegnamento di Cicerone: legum servi sumus ut liberi esse possumus, essendo la legge garanzia di libertà. Predeterminando in modo certo i limiti dell’azione di tutti i consociati (compresi coloro che esercitano il potere) e coordinando con certezza i campi entro i quali ciascuno può muoversi, la legge assicura a ciascuno – entro questo suo campo oggettivamente determinato – la libertà. Se non vi fosse la legge, se questa non venisse rispettata da tutti, non si saprebbe che cosa è lecito e che cosa è vietato; chi detiene il potere potrebbe agire a suo arbitrio; e nella società sarebbe il caos.

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