C’è sessismo e sessismo. Tendenzialmente mi tengo lontana dalle polemiche sulla discriminazione di genere perché molte donne la usano per vittimismo, per opportunismo, per visibilità e anche per moda. Mi tengo lontana dalla retorica, ma vicina alla questione di genere se affrontata con raziocinio.

Mi tocca da vicino perciò quello che è successo al convegno organizzato dal Cern, le slide del professore dell’Università di Pisa Alessandro Strumia che provano a spiegare scientificamente perché la fisica sia più dell’uomo che della donna. Una esagerazione, la manifestazione di un singolo che – probabilmente scottato da esperienze passate – vuole dimostrare che oggi i veri discriminati sono gli uomini. A sostegno della sua tesi, però, Strumia espone una slide con un grafico che mostra parità di ‘bravura’ tra uomini e donne all’avvio della carriera ma un crescente divario all’aumentare dell’età “scientifica”, tendenzialmente quindi a partire dal conseguimento del dottorato: sul lungo termine gli uomini avrebbero un improvviso picco di bravura che li smarcherebbe dalle colleghe, dimostrando che la fisica sia per soli machi.

Ma Strumia dimentica di considerare diverse variabili, fa un errore molto poco femminile. Non considera ad esempio il fatto che la bravura sia basata sul sistema delle citazioni, a volte – non sempre – dopato da collaborazioni strumentali, da scambi di favori, da firme aggiunte a caso, da riviste auto pubblicate o da riviste che si scambiano citazioni. Certo, forse accade meno nei settori delle scienze, della fisica o della matematica. Ma misurare la bravura e l’accesso alla materia solo su questo parametro è molto riduttivo.

Ammesso poi che non lo fosse, ci sono comunque altre variabili. La maternità su tutte: salvo casi eccezionali, genera fisiologiche differenze uomo-donna in termini di produttività e continuità. Differenze che è giusto che una società cerchi in tutti i modi colmare. E’ sbagliato? Sfido chiunque a sostenerlo senza vanificare qualsiasi sacrificio abbia fatto sua madre per metterlo al mondo.
Empiricamente, poi, guardatevi un attimo intorno: quante donne che conoscete ricoprono ruoli base o intermedi di coordinamento, forse proprio perché più abili a trattare e mediare con gli altri, allontanandosi dal “lavoro sul campo”, dalla ricerca e anche dalle posizioni apicali?

Vedete quanto rare sono le donne che comandano, ma quanto frequenti quelle che mandano avanti la baracca senza troppe lamentele e, purtroppo, spesso senza rivendicazioni sindacali per il diverso trattamento di carriera e di stipendio?

Negare che ci sia un problema sistemico e sostenere dipenda solo da bravura e citazioni è squallido quanto incolpare la differenza di genere per ogni fallimento personale. E non lo dico io. Non più tardi di un anno fa, l’università di Trento elaborava i dati raccolti dal Consiglio Europeo della Ricerca, dal Ministero dell’Istruzione, dall’Anvur, da Joanneum ed Eurostat per arrivare a un semplice risultato: in Italia, il 70% delle donne in accademia è assegnista di ricerca o ricercatrice e solo il 10% è professore ordinario. Al contrario, solo il 51% degli uomini occupa posizioni di assegnista o ricercatore, e ben il 25% è professore ordinario. Eppure, dato non da poco, il 61% dei laureati sono donne. Cosa accade dopo, non può essere colpa della bravura.

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