Sottovalutazione dell’infiltrazione mafiosa, ritardi investigativi, impreparazione e vulnerabilità delle amministrazioni e del sistema politico, accettazione sociale di personaggi che “non disturbano e non infastidiscono”. Sono le debolezze, gli elementi facilitatori, che hanno consentito alla cosca Grande Aracri di piantare stabili radici nel piccolo comune di Brescello, in riva al Po, e da lì espandere le proprie attività in un’area vasta e ricca che comprende le province di Reggio Emilia, Parma, Modena, Mantova, Cremona, Piacenza. A dirlo questa volta non sono le indagini o i collaboratori del processo Aemilia (che si avvia prossimamente alla sentenza), ma una corposa ricerca effettuata da Cross, l’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università di Milano diretto dal professore Nando Dalla Chiesa. (Qui puoi leggere la sintesi del report). Il presidente onorario di Libera l’ha presentata il 19 settembre scorso in Camera del Lavoro, a Reggio Emilia, assieme alle colleghe dell’Osservatorio Ombretta Ingrascì e Federica Cabras che per otto mesi hanno scandagliato il paese di Peppone e Don Camillo, raccolto interviste e incassato rifiuti a parlare, analizzato atti amministrativi e documenti giudiziari a partire al decreto presidenziale che nell’aprile del 2016 scioglieva il consiglio comunale decretando il commissariamento.

Il quadro che emerge dall’analisi di Cross è quella di un processo di insediamento della ‘ndrangheta definito “omeopatico”, a piccole dosi, in modo non aggressivo, con tempi lunghi. Come in altre realtà del nord, dice Dalla Chiesa, si sceglie un piccolo comune, dove piccolo è anche il numero delle figure istituzionali deputate al controllo. Un “avamposto del processo di legittimazione di attori mafiosi” che grazie alla progressiva accumulazione di capitale frutto di attività illecite consente una ascesa economica e sociale, agevolata anche da donazioni (come gli 81 bilici di sabbia regalati da Francesco Grande Aracri al Comune nei giorni dell’alluvione del 2002).

A Brescello a partire dagli anni Ottanta, prosegue la ricerca di Cross, si è insediata una “concentrazione così alta di mafiosi” imparentati tra loro che è “raro” trovare altrove. Da Francesco Grande Aracri al figlio Salvatore detto “Calamaro”, dal capo cosca Alfonso Diletto (condannato nell’abbreviato di Aemilia a 14 anni e due mesi) a Gennaro Gerace, Carmine Rondinelli e Salvatore Frijo. Per tutti e per la cosca il comune rivierasco è la “roccaforte della reputazione positiva” da conquistare in Emilia, il territorio da “non sporcare”, anche per offrire l‘alibi dell’ignoranza a chi dice: “Non so se è mafioso o no, ma qui si è sempre comportato come si deve”.

“Attenzione”, ammonisce Dalla Chiesa, perché l‘infiltrazione a piccoli passi poi diviene “progetto”, “conquista dal basso”, fino a sovvertire i principi di comunità impiantando il “modello di società” funzionale ai mafiosi. Brescello ci insegna che la ‘ndrangheta “non è una alluvione ma una marea che sale lentamente” e dire “non la voglio conoscere”, benché non significhi complicità, non assolve dalle responsabilità quando la marea sommerge tutti.

Come combattere questa deriva? Partendo dalla conoscenza e dalla educazione. Partendo dalla scuola e dai ragazzi. Ma alla proposta del Ministero di svolgere iniziative in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, dice Dalla Chiesa, l’istituto comprensivo di Poviglio e Brescello ha risposto che se ne riparlerà magari l’anno prossimo: per il 2018 i programmi erano già definiti. E non solo: alle ricercatrici di Cross la dirigenza scolastica ha preferito non rilasciare interviste. “Ho saputo dal ministero dell’Istruzione che a Brescello ci sono state delle resistenze sulle iniziative nelle scuole per la giornata della legalità del 23 maggio”, sono le parole di Dalla Chiesa. E nonostante le richieste arrivate direttamente dal dicastero, “non è stato fatto nulla”, e in particolare non sono state organizzate “iniziative o progetti da recapitare alla fondazione dedicata al giudice”.

Alla affollata presentazione della ricerca c’erano pochi amministratori: il sindaco Pd di Reggio Emilia Luca Vecchi, il vicesindaco di Brescello Stefano Storchi, che però se n’è andato prima dell’intervento di Nando Dalla Chiesa. Non c’era nessun sindaco degli otto comuni della Bassa Reggiana, la fascia più esposta al radicamento mafioso, e non c’era il presidente della Provincia Gianmaria Manghi, eletto di recente sottosegretario alla presidenza della Regione Emilia Romagna.

C’era invece il dottor Giacomo Di Matteo, uno dei tre commissari prefettizi che hanno guidato il comune di Brescello fino alle nuove elezioni della primavera scorsa. In un accorato intervento ha detto: “Il nostro arrivo a Brescello non è stato preparato da una adeguata informazione alla popolazione locale. Lo scioglimento per mafia è un punto di partenza e non di arrivo”. Avrebbero dovuto capirlo in particolare le istituzioni elettive, Regione, Provincia, Unione dei Comuni, per accompagnare la comunità locale sulla strada condivisa dell’affrancamento dai condizionamenti mafiosi.

“Siamo stati lasciati soli di fronte alla diffidenza e ai pregiudizi” aggiunge Di Matteo alla fine dell’incontro. “Lo Stato ha sciolto il Comune e ha mandato i suoi funzionari a governare una comunità senza guida e tradita dai suoi rappresentanti, difendendo la propria scelta davanti ai diversi gradi della giustizia amministrativa. E le altre istituzioni? La mobilitazione delle forze sane è compito di tutti se vogliamo davvero avviare un percorso culturale e sociale capace di creare gli anticorpi per il futuro”. Non è mai troppo tardi per capirlo e cominciare.

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