I bambini capiscono le canzoni prima e meglio degli adulti. Me ne sono accorto un paio di sere fa, in un momento preciso, durante Montesilvano d’Autore 2018.

Sono sul palco e intervisto Paolo Fiorucci, uno dei migliori cantautori italiani. A un certo punto passa un elicottero. Rachele, tre anni a maggio, è seduta in prima fila: guarda l’elicottero, lo indica, urla di gioia: “Papà!”. Il papà di Rachele, Stefano, di mestiere fa il pilota di elicotteri. Dentro quell’elicottero Stefano non c’è, è altrove, forse nella sua branda, o forse su un altro elicottero, ma Rachele ha comunque ragione: la verità è che quell’elicottero è suo papà e non c’è realtà che tenga. Ecco: le canzoni funzionano così.

Felice di smentirti ancora, triste Signora Blu:
non è la vita ad ispirare le canzoni, come credi tu;
son le canzoni che costringono la vita
ad essere com’è
e come non è.

Così canta Roberto Vecchioni in un brano del 1995. Ed è vero.

Questa cosa succede soprattutto con le canzoni per bambini, ma tanto le canzoni sono tutte per bambini. La canzone, quando è una canzone che vale la pena ascoltare, ti prende per mano e ti dice lei dove andare, dove ti trovi, se sei Achab o Peter Pan, se sei Al Capone, Donna Cannone o Uomo Bullone.

Ma torniamo alla serata. L’ironia della sorte vuole che da lì a pochi minuti io debba fare una domanda a Fiorucci, prima della sua canzone L’astronave che non c’è. È un brano per bambini che racconta una storia vissuta in prima persona dal cantautore: il suo lavoro tra i ragazzini nel campo di Coppito, a L’Aquila, nei giorni immediatamente seguenti al terremoto del 2009.

Faccia di tempera
se mi dimentico il sorriso
arrivi tu col pennarello,
un po’ di rosso e rido anch’io.

Faccia di tempera
che dici gli anni con le dita,
che sai volare e dall’astronave,
dalle mie spalle guardi giù.
E sei più grande, molto più di me,
ma forse questo lo eri già,
per arrivare in alto come te
dovrò inventare l’astronave che non c’è!

L’astronave che non c’è è un gioiello e io a Fiorucci faccio una domanda sul gioco, su Bennato, sulle canzoni da bambini che poi dicono verità universali, perché i bambini non hanno sovrastrutture. Gli chiedo del verso più bello del brano: “si è fatto sabato sul viso”, che descrive la partenza di ogni fine settimana e il distacco da quel campo. Ma forse perdo tempo, avrei dovuto descrivere la felicità di Rachele nel salutare suo papà.

E poi di com’è difficile scrivere una canzone che stia in equilibrio, tra la realtà e la verità da reinventare tra musica e parole. La canzone è sempre metafora, anche quando ci sembra pura cronaca. Lo spazio di una canzone ce lo concediamo come tempo fuori dal tempo in cui la musica scende in picchiata a sollevare le parole, per farle diventare altro.

I bambini questo lo capiscono meglio, perché in loro i nessi tra cose somiglianti sono ancora evidenti, e non c’è bisogno che siano racchiusi tra l’inizio e la fine di una canzone: ancora, in loro, esiste un simbolismo puro e innato, che riconduce tutto a un’unica verità che prescinde dalla perdita di tempo della realtà.

Ai bambini e ai poeti è dato di ragionare così.

Ecco perché le canzoni sono tutte per bambini e io l’ho capito solo l’altra sera, grazie a Rachele.

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