Da questa settimana le donne in Arabia Saudita potranno finalmente guidare. Il divieto di guida, diventato simbolo della discriminazione di genere, ha caratterizzato molte delle notizie apparse sui nostri giornali e ha visto in prima linea attiviste saudite rivendicare la possibilità di mettersi al volante. L’abolizione del divieto era stata già annunciata a settembre 2017 e rientra in una piattaforma, “Vision 2030”, che prevede riforme economiche e sociali volute dal principe ereditario Mohammed bin Salman. La notizia ha fatto il giro del mondo e non è mancata neppure la rivista di moda e costume che ritrae la principessa Hayfa bint Abdullah al Saud, una delle figlie del defunto re Abdullah, al volante di un’auto decapottabile nel deserto che restituisce la novità delle riforme governative.

Peccato che l’Arabia Saudita, anche attraverso questa immagine, abbia tentato di cannibalizzare la lotta delle numerose donne e ragazze che oltre a fare del diritto alla guida una lotta e un simbolo divulgativo potente, hanno sempre denunciato le numerose e costanti violazioni dei diritti umani e dei diritti delle donne che avvengono nel Paese. Basti pensare che è tutt’ora in vigore il principio di segregazione femminile che vuole le donne sottoposte all’autorità di un uomo che sia marito, fratello o figlio per quasi ogni scelta e movimento. Ad esempio hanno bisogno di un permesso maschile per viaggiare e per studiare.

Questo tipo di operazione, che vede il riconoscimento di diritti senza che avvengano poi dei reali cambiamenti strutturali, facendolo inoltre passare come concessione che cade dall’alto, è ormai comune in tanti paesi ad opera di diversi governi. Una manovra di “pinkwashing” che attraverso presunte iniziative in favore delle donne tenta di risolvere l’intera questione della disuguaglianza di genere e distoglie l’attenzione dalla gravità del fenomeno. Una riforma più che altro di immagine per il governo, ma soprattutto per il sovrano che sta costruendo e rafforzando la sua immagine politica; questo non toglie l’importanza al diritto rivendicato e riconosciuto, ma è necessario saperne leggere le sfumature.

Le attiviste saudite lo sanno bene. Il video di Majdooleen al-Ateeq, fatto dall’agenzia Reuters che l’ha seguita nel giorno dell’abolizione del divieto di guida per le donne, sottolinea come questo sia un primo grande passo avanti, “una grande opportunità per noi donne saudite, che ci spiana la strada per altre conquiste come la leadership sul posto di lavoro”. La lotta delle donne in Arabia Saudita è infatti ripartita immediatamente anche nel denunciare come la riforma non sia merito del sovrano ma delle manifestazioni che hanno caratterizzato questi anni e che sono iniziate molto tempo fa; era il 6 novembre 1990 quando decine di donne guidarono fino a Riad, sfidando appunto il divieto di guida che le relegava ai sedili dei passeggeri, simbolicamente dietro un autista rigorosamente maschio che guida la tua vita. In quell’occasione le manifestanti furono arrestate, denunciarono varie forme di umiliazione e infine furono licenziate dai datori di lavoro. Tra quelle donne c’erano sia la madre sia la zia di Majdooleen al-Ateeq.

Inoltre solo nel maggio scorso, secondo quanto riportato da Amnesty International, sono diverse le attiviste finite in carcere con l’accusa di “tradimento”. Tra le imprigionate, ci sono anche coloro che hanno lottato per il diritto alla guida, come Lojain al-Hathloul e Aziza al-Yousef, silenziate nuovamente, imprigionate e impedite nel movimento e a cui inoltre non viene riconosciuto di essere le protagoniste della battaglia che ha portato al cambiamento.

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