Or sono diversi mesi che mi sono imposto una sommersione carsica, tenendomi accuratamente lontano da esposizioni mediatiche, prima fra tutte quella che mi deriva dalla partecipazione a un rispettabile pubblico delle mie riflessioni su questo blog.

Il periodo sabbatico, comunque, è stato intellettualmente felice, avendomi consentito di attendere con la dovuta ponderazione e la necessaria concentrazione alla pubblicazione del libro Paura e Potere. Società di massa e monopolio della forza al tempo della crisi dello Stato-Nazione, pubblicato da Odradek edizioni nella collana Saggi e studi. Un libro, come tutti quelli che si rivolgono, per dirla con Giuseppe Giusti (Per il primo congresso dei dotti tenuto in Pisa nel 1839), non già a degli “asini” ma a “chi puzza d’alfabeto”, destinato magari al circuito underground ma che riporta al centro del dibattito della sfera pubblica – dai molteplici contesti di crisi internazionale (guerre, conflitti asimmetrici o non convenzionali) e dalle intrinseche contraddizioni degli organismi sovranazionali (ai quali sarebbe delegato il “governo globale”) – termini e nozioni come “Stato d’eccezione”, “monopolio statale della violenza”, “forza dello Stato o Stato della forza”, oggi investiti da un’accezione pubblicistica e strumentale che ha spesso finito per far loro perdere una diretta corrispondenza tra l’oggetto e il nome che gli si attribuisce.

Durante questo viaggio, che ha attraversato l’ideologia dello Stato e i suoi cardini effettivi, i suoi elementi di contraddizione e i fattori di crisi insiti nelle entità della modernità contemporanea – mentre cercavo (peraltro) di far prendere la parola in un dialogo a distanza a giganti del pensiero come Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, Antonio Gramsci e Sant’Agostino, Carl Schmitt e Hans Kelsen – sono stato costretto, “per abitudine e per trastullo” (ancora una volta per dirla con Giuseppe Giusti, Il brindisi di Girella) a riflettere “placidamente” sul chiacchiericcio, spesso pigliato “a frullo”, del coté politico, prima impegnato in una sempre urlata e talvolta anche feroce campagna elettorale e, quindi, nell’estenuante trattativa per la formazione del governo.

I tempi ritengo siano maturi per la riemersione. Non è questa, naturalmente, la sede per entrare nel merito delle diatribe tra i protagonisti politici e rispettive tifoserie, mi limito piuttosto a evidenziare alcuni fondamentali. Primo fra tutti, il fatto che, ormai da molti anni, a dettare l’agenda politica è la destra, con la benevola tolleranza della sinistra. Una sinistra di cui è difficile, del resto, dare una definizione. Il movimento socialista – nato in una società capitalistica di produttori, divisa tra sfruttati e sfruttatori – pensava che la classe operaia avrebbe inglobato l’intera società, ma è successo il contrario.

Degradata la classe operaia da fondamento d’ogni economia a fenomeno residuale, nella coscienza della maggior parte dell’elettorato la società si divide tra coloro che pagano le tasse e coloro che beneficiano delle imposte pagate dagli altri. Ovvio, allora, che tanto quel poco che è rimasto della sinistra quanto la destra cerchino di vendere la loro merce agli stessi clienti – i “contribuenti” – presumendo siano loro il “popolo”. Abbandonata, dunque, l’utopia che si appellava al meglio degli esseri umani, solidarietà, cura dell’altro, disponibilità ad aiutare chi abbia bisogno dell’altrui soccorso, e seguita la destra sul terreno dell’appello all’egoismo, dove questa è assai più convincente, i partiti di sinistra sperano solo che la destra faccia male quel che promette e che i consumatori delusi cambino le loro preferenze elettorali.

Nel dibattito politico (soprattutto in quello post-elettorale) mi è parso di poter cogliere, peraltro, come i soccombenti non si limitino ad adottare la tattica del “noi lo faremo meglio di loro”, ma come nella loro personalità si sia insinuato piuttosto il risentimento, diventando un elemento permanente del carattere delle persone. Come spiegano gli psicologi, il risentimento è il veleno che la mente si somministra da sola, con conseguenze ben definite: le emozioni e gli affetti più direttamente interessati sono la vendetta, l’odio, la malignità, l’invidia, l’impulso a denigrare e il rancore. Ha radici in una sensazione d’impotenza; è più passivo dell’invidia; spesso scaturisce quando si sa di non poter cambiare una situazione che non piace e non si riesce a rassegnarsi all’idea. In preda al risentimento si sottovaluta e, dunque, si svilisce ciò che non si può fare, ottenere o uguagliare.

La storia emblematica del risentimento è la favola di Esopo, La volpe e l’uva: poiché non riesce a raggiungerla, la volpe conclude che tanto l’uva non è matura, puro risentimento, e quindi tutto al diavolo.

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