Tutti assolti anche in secondo grado per la morte di Giuseppe Uva. Lo ha deciso la corte d’assise d’appello di Milano riconoscendo la non colpevolezza dei due carabinieri e dei sei poliziotti imputati per la morte dell’uomo, avvenuta poco più di dieci anni fa, a Varese. Gli imputati, accusati a vario titolo di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona, sono stati assolti perché il fatto non sussiste. Il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo aveva chiesto di condannare a 13 anni i due militari e a 10 anni e mezzo i sei agenti.

Il verdetto di primo grado – I giudici hanno in sostanza confermato quasi totalmente il verdetto di primo grado per i carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco e i poliziotti Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Gioacchino Rubino, Vito Capuano e Luigi Empirio. Per Righetto e per il collega Dal Bosco, infatti, la corte d’assise e d’appello di Milano ha riformato la sentenza di primo grado proprio in relazione all’accusa di sequestro di persona. Entrambi erano stati assolti dal tribunale di Varese perché “il fatto non costituisce reato” per la mancanza dell’elemento psicologico.

La famiglia: “Legge non uguale per tutti”-Dieci anni che infangano il nome dello zio“, ha urlato in aula la nipote di Giuseppe Uva, Angela, subito dopo la lettura del dispositivo. “La legge non è uguale per tutti. Sono anni che infangate il nome di mia madre e di mio zio e non avete mai avuto rispetto della nostra famiglia”, ha aggiunto. Gli imputati, tutti presenti in aula, e i loro legali, hanno reagito invitando la nipote di Uva a calmarsi. La donna, però, ha continuato a protestare ripetendo: “Per 10 anni ci hanno infangato mentre noi non lo abbiamo mai fatto”. Nel frattempo Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha stretto la mano in segno di sfida all’agente Colucci. La donna è corsa dietro al poliziotto dopo la lettura del dispositivo insieme a un altro fratello dell’operaio, Nicola. “Per la prima volta – ha detto Lucia Uva – abbiamo avuto la procura dalla nostra parte e io sono stata felice per la prima volta di avere la procura di Milano dietro di me a sostenermi”. Nel precedente grado di giudizio, infatti, i rappresentanti dell’accusa avevano chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati.

La ricostruzione – Uva fu fermato il 13 giugno del 2008 da due militari mentre stava spostando delle transenne dal centro di Varese. Fu poi portato in caserma e infine trasportato con trattamento sanitario obbligatorio all’ospedale di Circolo di Varese, dove morì la mattina successiva per arresto cardiaco. Secondo l’accusa la morte dell’operaio fu una conseguenza, insieme ad altre cause, tra cui una sua pregressa patologia cardiaca, delle “condotte illecite” degli imputati. Condotte scaturite dalla decisione dei due carabinieri di “dare una lezione” al 43enne, che si sarebbe vantato di una presunta relazione sentimentale con la moglie di uno dei due.

La difesa: “Imputati hanno fatto loro dovere” – Diversa la tesi dei difensori degli imputati, che hanno sostenuto come quella sera non vi sia stata “nessuna macelleria, nessuna azione di violenza”, e che l’accusa “è stata gonfiata” per effetto “di un aspetto mediatico e televisivo che ha spettacolarizzato la vicenda”. “È stato dimostrato anche oggi che carabinieri e i poliziotti hanno fatto solamente il loro dovere. E questa è la cosa più importante”, ha commentato dopo la lettura del dispositivo l’avvocato Luigi Marsico, uno degli avvocati degli 8 imputati. Il legale, che ha parlato a nome di tutti i difensori- gli avvocati Carlo Porciani, Fabio Sghembri, Duilio Mancini e Luciano Di Pardo -subito dopo la lettura del dispositivo ha ripetuto: “Quella sera hanno fatto quel che dovevano fare”.

Legale Uva: “Sentenza pericolosa” – “Questa è una sentenza pericolosa. Ovviamente lette le motivazioni faremo subito ricorso in Cassazione”, ha detto invece il difensore della famiglia Uva, Fabio Ambrosetti. “Sono sinceramente molto stupito dalla sentenza – ha aggiutno – in particolare sul primo capo di imputazione. Preoccupa soprattutto che ci possa essere una limitazione della libertà personale quando non ci sono esigenze di identificazione o ragioni reali”. L’avvocato ha spiegato che ovviamente “la famiglia Uva dopo 10 anni non ha accolto positivamente la sentenza. Lucia Uva, però,  è assolutamente soddisfatta almeno nella parte in cui per la prima volta un procuratore le ha detto che aveva ragione e che ha avuto ragione nel proseguire la battaglia”.

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