La perdita del controllo sul consiglio di amministrazione di Telecom Italia  non frena Vivendi che non intende affatto disimpegnarsi da Tim. “Saremo molto attenti e vigili affinché la strategia non cambi”, ha commentato a caldo il direttore della comunicazione del gruppo francese. Quanto alla possibilità di uscire di scena, ha ricordato che “siamo un azionista di lungo termine”. Tanto più che, avendo perso alla conta dei voti, i francesi venerdì 4 maggio hanno dimostrato di non avere “il controllo di Tim” escludendo quindi l’obbligo di consolidamento del gruppo italiano e dei suoi debiti. Un segnale molto chiaro per i vertici della Cassa Depositi e Prestiti che, stando al Sole 24 Ore, starebbero trattando il prezzo dei francesi per levarsi di torno.

La cassaforte che custodisce i risparmi postali degli italiani ha già puntato una fiche di poco inferiore agli 800 milioni per comprare il 4,9% del capitale dell’ex monopolista. Al momento è autorizzata a crescere fino al 5 per cento. Ma i giochi, sostiene il quotidiano della Confindustria in edicola venerdì 4 maggio, potrebbero rapidamente mutare con l’obiettivo di consentire un alleggerimento del peso di Vivendi che oggi ha il 23,9% di Tim. L’operazione non sarà indolore per le casse pubbliche: Bolloré ha acquistato le azioni Telecom quando il titolo valeva oltre il 21% in più e non è chiaramente disposto ad accollarsi una perdita di circa un miliardo e mezzo. Di conseguenza chi comprerà da Vivendi dovrà mettere sul piatto una somma almeno pari a quella sborsata dal raider bretone.

Anzi, di più. Bolloré, socio di Mediobanca e scalatore fallito di Mediaset, non sembra aver alcuna intenzione di farsi da parte senza un’adeguata ricompensa che magari contempli anche una soluzione al braccio di ferro in atto con Cologno Monzese. In quest’ottica, la Cassa Depositi e Prestiti è il candidato ideale a fare da paciere nella guerra fra il patron di Vivendi e la famiglia Berlusconi. Resta da capire quale sarebbe mai la volontà politica che muove la Cassa nel fare un investimento così corposo con finalità tutte da chiarire, proprio mentre il Paese è politicamente allo sbando. E pure la stessa Cdp non è particolarmente stabile, visto che i vertici sono in scadenza  e dovranno essere rinnovati nell’assemblea del prossimo 23 maggio (il 20 giugno in seconda convocazione). Di certo per ora c’è solo un fatto: Bolloré è un osso duro e nonostante le difficoltà giudiziarie in Francia non abbandonerà a gratis la sua campagna d’Italia.

Per convincersene basta ripercorrere le tappe della sua carriera costellata da fruttuosi raid in cui i soci delle aziende preda sono dovuti scendere a patti mettendo mano al portafoglio. Nei circoli finanziari parigini tutti ricordano i casi della Rue Imperiale, casa madre di Lazard, e di Bouygues, gruppo che Bolloré prese di mira trent’anni fa. Una faccenda, quest’ultima, in cui “Vincent Bolloré si è comportato come un teppista”,  come confidò al settimanale francese Challenges del 20 settembre 2013 Martin Bouygues, proprietario dell’omonimo gruppo di telefonia e della prima tv commerciale del Paese, TF1. “Mi ha steso, imbrogliato, umiliato. Non lo dimenticherò mai”, aggiunse l’industriale che, al pari di Bolloré, ha anche grandi interessi in Africa. Dal raid nel capitale di Bouygues, il finanziere bretone intascò una plusvalenza da 240 milioni. Bouygues si liberò della sua presenza in consiglio solo grazie all’ingresso in scena dell’amico François Pinault che si rese disponibile a comprare il pacchetto di titoli in mano al raider. Stesso copione nell’affare della casa cinematografica Pathé, da cui Bolloré guadagnò più di 122 milioni nel giro di un mese. “La prossima volta che vedrò Vincent Bolloré entrare in una società, lo seguirò a testa bassa”, commentò un investitore in un articolo del quotidiano finanziario Les Echos del 26 gennaio 1999.

Poco dopo fu la volta della Rue Impériale, cassaforte di Lazard, attraverso la quale Bolloré realizzò due obiettivi: rimettere l’amico e mentore Antoine Bernheim alla guida delle Generali e incassare 250 milioni di dollari di plusvalenza dalla vendita al Crédit Agricole dei titoli acquistati nel suo blitz sulla Rue Impériale. Non senza farsi molti nemici fra i potenti banchieri di Lazard. Negli anni successivi, i raid di Bolloré non sono certo terminati, ma anzi la tecnica si è perfezionata ed è stata utilizzata anche all’estero come nel caso di Aegis, in cui Bolloré investì con l’obiettivo di fonderla con Havas, ma da cui poi uscì con una plusvalenza da 450 milioni per via delle avversità del management inglese.

In tempi più recenti, via Vivendi è riuscito ad intascare 1,2 miliardi di guadagni dalla scorribanda su Ubisoft: Vivendi aveva acquistato il 27,27% del primo editore di giochi elettronici in Europa, mantenendosi sotto la soglia d’Opa ma diventando di fatto il primo socio del gruppo. Una situazione che ha allertato la famiglia Guillemot che da tempo guida Ubisoft e che ha preferito metter mano al portafoglio pur di levarsi di torno l’ingombrante raider bretone. Troppo facile l’analogia fra il caso Ubisof e quello di Telecon con la differenza che, nella vicenda italiana, ad essere interessato alla partita c’è un gruppo pubblico come la Cdp in un momento in cui non c’è però a Roma non si trova la quadra sul nuovo governo.

E Bolloré “raramente abbandona la partita, sempre con succulente plusvalenze in mano: 800 milioni di euro per il raid in Bouygues, Pathé e Lazard (Rue Impériale) agli inizi degli anni 2000″, evidenziò Challenges nello stesso articolo in cui riferiva nel 2013 gli stati d’animo di Bouygues dopo il raid di Bolloré sulla sua azienda. “Secondo una classifica di Challenges, il finanziere è oggi la 7ima fortuna di Francia, stimata a 8 miliardi di euro – nel 2000 – contro 89 milioni nel 1996!”, proseguì il giornale. La sua ambizione è crescere ancora in vista del passaggio del testimone del gruppo al figlio Cyrille. E al progetto potrebbe contribuire anche la Cassa Depositi e Prestiti, cassaforte del risparmio postale degli italiani, che qualcuno vorrebbe utilizzare per liquidare il bretone e mettere una pezza a colori agli errori della privatizzazione di Telecom, finendo indirettamente con l’appoggiare anche Silvio Berlusconi che non ama di certo la presenza del raider bretone nel capitale della sua Mediaset. In nome di quale input politico? Questo è davvero difficile da decifrare.

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