Il problema non è se ci fu o meno la Trattativa. Il problema è se a un certo punto qualcuno si fece portatore delle minacce mafiose: altre bombe e altre stragi se lo Stato non avesse ceduto. E quindi non avesse alleggerito la pressione su Cosa nostra. La sentenza del processo sul Patto tra mafia e Istituzioni gira soprattutto su questo: boss, carabinieri e politici intimidirono – seppur con modi e ruoli diversi – il governo? E lo fecero tutti? Oppure al contrario non c’è alcuna prova che ciò accadde? E dunque tutti – o quasi tutti – gli imputati del processo sulla Trattativa vanno assolti?

Domande alle quali risponderà la corte d’Assise di Palermo. Alle ore 16 di venerdì 20 aprile i giudici guidati da Alfredo Montalto compariranno nell’aula bunker del carcere Pagliarelli dopo essere usciti dalla camera di consiglio. Ci erano entrati la mattina di lunedì 16: in totale, dunque, impiegheranno più di cinque giorni per mettere un punto al processo cominciato nel capoluogo siciliano nel 2013. E che ha fatto registrare negli anni polemiche roventi, veleni, momenti di alta tensione istituzionale. 

Un’epoca destinata in qualche modo a chiudersi con la risposta al più difficile dei quesiti: tra il 1992 e il 1993 Cosa nostra alzò gradualmente il tiro dei suoi delitti – da Salvo Lima agli attentati di Roma, Milano, Firenze, passando per le stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – con l’obiettivo d’instaurare un nuovo dialogo con lo Stato, dopo che quello vecchio era saltato con la sentenza del Maxi processo? E in questo senso gli altri imputati si prestarono a fare da “cinghia di trasmissione” della minaccia mafiosa per bloccare l’offensiva antimafia del governo? Anzi dei governi, visto che per l’accusa furono tre gli esecutivi destinatari della promessa di nuovo sangue: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, alla fine della Prima Repubblica, e quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda.

È questo che punisce il reato del quale rispondono sette dei nove imputati, e cioè la violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Una fattispecie molto complessa da dimostrare, che in passato è stata contestata in rarissimi casi. E per la quale Calogero Mannino è già stato assolto dopo avere scelto il rito abbreviato. Una sentenza, quella emessa dal gup Marina Petruzzella nel novembre del 2015, che potrebbe ovviamente influire su quella della corte d’Assise.

Per la ricostruzione dei pm Vittorio TeresiNino Di MatteoFrancesco Del Bene e Roberto Tartaglia, infatti, fu proprio Mannino l’ispiratore dell’interlocuzione con i boss che volevano eliminarlo. Da quell’input si arrivò ai colloqui tra Vito Ciancimino e i carabinieri del Ros. Per questo motivo sono oggi alla sbarra tre ex militari:  Antonio Subranni, per il quale l’accusa ha chiesto 12 anni di carcere, Mario Mori, su cui pende una richiesta di condanna pari a 15 anni, Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare a 10 anni. Quegli incontri con don Vito e le successive comunicazioni di Mori a Liliana Ferraro, all’epoca vicedirettore degli Affari Penali del ministero della Giustizia guidato da Claudio Martelli, rappresentano un tentativo di veicolare le richieste di Cosa nostra? O i carabinieri stavano davvero cercando solo una strada per arrestare Totò Riina (come poi avvenne il 15 gennaio del 1993) e fermare la furia violenta di Cosa nostra?

Rispondendo a questo quesito i giudici potrebbero avallare le richieste dell’avvocato Basilio Milio, legale di Mori, che ha chiesto per il suo assistito il ne bis in idem. L’ex generale, infatti, è gia stato assolto in via definitiva per il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel 1995, processo nel quale era però accusato di favoreggiamento a Cosa nostra. Il ne bis in idem è stato chiesto anche dai legali di Marcello Dell’Utri, che sconta una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e al quale i pm vorrebbero sommarne un’altra a 12 per violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Per l’accusa l’ex senatore è l’uomo che veicola la minaccia mafiosa al primo governo Berlusconi: in questo modo si sarebbe chiuso il nuovo patto con Cosa nostra. La prima sentenza della Cassazione che nel 2012 ordina per lui un processo d’appello, però, assolve Dell’Utri per i fatti successivi al 1992: ecco perché l’avvocato Giuseppe Di Peri ha chiesto di applicare all’ex senatore il principio che vieta di essere processati due volte per lo stesso fatto in presenza di una sentenza definitiva.

Ha optato invece per l’assoluzione la difesa di Nicola Mancino. L’avvocato Nicoletta Piergentili ha chiesto alla corte di riconoscere che il fatto contestato all’ex ministro non sussiste. E il fatto contestato altro non è che la falsa testimonianza per la quale sono stati chiesti sei anni di carcere. I pm, infatti, lo hanno messo sotto inchiesta perché ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e Ciancimino. I giudici, in pratica, o credono a quanto riferito da Mancino o credono alla versione Martelli.

Dovranno decidere se credere o meno anche a Massimo Ciancimino, che è sì imputato per calunnia a Gianni De Gennaro (il concorso esterno è infatti prescritto), ma è anche uno dei testimoni originari dell’inchiesta. Solo che dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per riciclaggio: attualmente è quindi detenuto. In più è stato condannato due volte per calunnia in primo grado, seppur per fatti diversi da quelli su cui è costruita la sua testimonianza al processo.

La corte, dunque, potrebbe decidere di condannare solo Leoluca Bagarella (sul quale pende una richiesta di pena a 16 anni) e Antonino Cinà (per lui la richiesta è di 12 anni). Sono gli unici due mafiosi rimasti tra gli imputati, dopo la morte di Totò Riina e Bernardo Provenzano, mentre i pm hanno chiesto il non luogo a procedere per il pentito Giovanni Brusca. “Chiedo di essere assolto per non avere commesso il fatto”, è il senso di una lettera inviata da Bagarella ai giudici alle battute finali del processo. Una condanna del cognato di Riina certificherebbe che effettivamente con l’escalation di terrore intrapresa tra il 1992 e il 1993 i corleonesi volevano intimidire lo Stato. Un fatto, questo, che appare comunque innegabile. Nonostante la missiva di Bagarella.

Twitter: @pipitone87

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