A prescindere dal dibattito su cosa gli Stati Uniti hanno davvero colpito e distrutto in Siria (dalle prime informazioni, sembra abbastanza poco), c’è una prima, vera vittima della rappresaglia americana: le relazioni internazionali. Mai, da decenni, la situazione internazionale è stata più tesa. Lo ha detto molto bene il segretario generale dell’Onu, António Guterres: “La guerra fredda è tornata, con una vendetta e una differenza”. La differenza è che i due maggiori contendenti e i loro alleati stanno già combattendo, in un teatro di guerra angusto e confuso: la Siria. Questo fa saltare il sistema di contrappesi e salvaguardie. In altre parole: un errore, e la situazione può esplodere.

Tra molti analisti si discute, in queste ore, di altri momenti recenti in cui le relazioni internazionali sono state così in crisi. Alcuni vanno alla crisi di Able Archer del 1983, quando l’Unione Sovietica pose in stato di allerta le sue armi nucleari in Germania est e Polonia. Altri risalgono, addirittura, alla crisi dei missili di Cuba, nell’ottobre 1962. Non siamo, probabilmente, a quel punto. Il divario di forza militare, tra Stati Uniti e Russia, è enorme. Washington spende per la sua difesa 550 miliardi di dollari ogni anno; Mosca solo 70. Con la sola eccezione delle armi nucleari, la seconda è superata dalla prima praticamente in ogni settore militare. Per fare un esempio, la Russia ha una sola portaerei; gli Stati Uniti ne hanno venti. L’idea che stia per scoppiare una terza guerra mondiale, oggi, e che il caso siriano sia una sorta di Sarajevo che dà fuoco alla miccia, appare piuttosto infondata.

Ci sono comunque dei pericoli che non vanno sottovalutati. In un teatro di guerra ridotto come quello siriano, c’è una quantità di attori incredibilmente alta, e con agende spesso contrapposte. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, senza dimenticare i curdi e lo Stato Islamico. La frammentazione delle forze siriane – ognuna con un proprio sistema di alleanze, regionali e internazionali – rende la situazione ancora più confusa. E quindi, se per esempio Francia e Gran Bretagna combattono una guerra reminescente delle vecchie ambizioni coloniali (e della necessità di “esserci”, mentre il controllo di territori e pozzi petroliferi dell’Isis si dissolve), Israele sta combattendo tutt’altra battaglia: quella contro l’Iran e le milizie sciite sempre più essenziali nella sopravvivenza politica e militare del regime di Assad.

Ancora più complesse e contraddittorie le ragioni che governano l’azione americana. Nel nord-ovest i turchi hanno preso Afrin e ora minacciano Manbij, dove le forze curde sono alleate con gli Stati Uniti in funzione anti-Isis. Washington rischia di trovarsi ai ferri corti con Ankara, un alleato Nato essenziale sul cui territorio si trova una base aerea essenziale, quella di Incirlik. Altra questione indissolubilmente legata alla Siria è ovviamente quella iraniana. Il nuovo consigliere alla sicurezza nazionale, John Bolton, spinge perché gli Stati Uniti denuncino una volta per tutte il trattato sul nucleare iraniano. Fonti del Pentagono hanno fatto sapere che proprio Bolton, in questi giorni, ha chiesto con insistenza che la rappresaglia americana in Siria colpisse anche obiettivi militari iraniani: una sorta di avvertimento a Teheran, in attesa dello scontro diplomatico sul nucleare. James Mattis, il segretario alla difesa, ha resistito, ma non è detto che la prossima volta Mattis ce la farà a tenere testa alle ambizioni militariste di una parte dell’amministrazione (o anche semplicemente che Mattis sarà ancora al suo posto, considerata la velocità con cui Trump sostituisce i suoi collaboratori).

A tutto questo si deve aggiungere il fatto che la rappresaglia alleata delle scorse ora non sembra aver davvero piegato il regime di Assad. Le celebrazioni a Damasco, dopo l’attacco, mostrano che il presidente siriano resta saldamente al suo posto, senza aver registrato vittime e con un apparato militare e chimico magari indebolito ma ancora vitale e operante. Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno detto di essere pronti a colpire di nuovo, nel caso Assad tornasse a usare armi chimiche. Ecco, cosa succederà, nel caso questo avvenisse? Sarà possibile, allora, evitare l’escalation? Anche perché, ulteriore variabile in una situazione già ricca di variabili, alla guida dei tre Paesi occidentali ci sono leader in difficoltà, che potrebbero essere tentati di lanciarsi in avventure internazionali per far dimenticare i problemi interni. La guerra fredda è quindi tornata, come dice António Guterres, con un elemento forte di somiglianza e molte differenze. Simile agli anni della guerra fredda è la difficoltà di comunicazione e gli attriti tra i due maggiori attori, Stati Uniti e Russia. Diverso è il contesto. Oggi non ci sono più due blocchi contrapposti. La scena non è il mondo ma un Paese solo, in cui si affollano molti attori, ognuno con interessi propri e contrastanti, gli uni accanto agli altri. Una mossa sbagliata, un atto imprudente, un errore di calcolo, potrebbero portare a quell’escalation che al momento, tutti, dicono di voler evitare.

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