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Ho sognato che la fotografia salvava i giornali

Ho sognato che la fotografia salvava i giornali
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In certi stati di grazia scatta una specie di telemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa
(Enzo Sellerio)

In questa formidabile sintesi l’essenza stessa del fotografare, almeno nella sua espressione più alta. Ma riscritto oggi, questo aforisma, andrebbe forse attualizzato nel finale, che reciterebbe: con quello che si fa.

Molta dell’odierna fotografia “una botta e via” si lega infatti più alle nostre azioni quotidiane che non alla nostra conoscenza del mondo. Quello che si fa e non quello che si sa. È solo un accenno a un fenomeno sociale e antropologico molto complesso, ma siamo certi che sia del tutto irreversibile?

La crisi editoriale – che ha visto crollare ai minimi storici la vendita dei giornali e, in una spirale perversa, i loro budget e a cascata ne ha impoverito i contenuti – sembra aver sancito il divorzio col grande fotogiornalismo, che si orienta infatti verso canali alternativi per tentare di resistere, cercando altrove sostegno economico e morale.

In una notte piena di stelle ho fatto un sogno: con la libertà paradossale che appartiene ai sogni, mi è apparsa un’editoria futura (quanto futura non saprei) che anziché defunta si presenta viva, vitale e soprattutto di ottima qualità. Nel sogno ho visto un sacco di gente che legge in metropolitana, ai giardini, nei bar, e solo raramente smanetta forsennatamente sui tasti di uno smartphone.

Ma quel che più interessa – visto che parliamo di fotografia – è come proprio su questa i giornali e le riviste fanno a gara per primeggiare, oniricamente parlando. “I sogni son desideri di felicità”, canta Cenerentola (e il parallelo tra fotografia giornalistica e Cenerentola mi sembra quanto mai appropriato), ma quale retropensiero può indurre i neuroni a partorire – sia pure in sogno – uno scenario di questo genere, così roseo e lontano dalla situazione “da svegli”?

Il sogno nasce, forse, dalla fiducia in quella cosa chiamata istinto di sopravvivenza: che recupera le buone pratiche (conoscere), ricerca calore e cibo (per l’anima), volge lo sguardo verso la luce (bellezza), conferisce lucidità e coraggio (consapevolezza).

Quando tutto sembra perduto, qualcosa di animalesco s’impadronisce di noi e, a volte, ci salva la vita. Oggi ricompaiono i dischi in vinile, si dedica tempo a cucinare, si va in bicicletta. Qualcuno obietterà, non senza ragione, che sono mode più che veri bisogni, così come si va ai festival di letteratura ma poi non si legge.

Io credo però che, nel caso della fotografia, il suo essere “di moda” riveli anche un’esigenza vera, quella di liberare la sua grande forza e con essa la nostra. Il presente appare come un “marasma fotografico”, ma nel sogno futuribile dal caos emergeva – se non un ordine – almeno una direzione, una strada e su quella via molti “fedeli” si erano incamminati. A costoro l’editoria aveva dato risposta (è il marketing, bellezza!) puntando sulla buona fotografia. Nuova linfa per il fotogiornalismo, e la spirale era tornata ad essere virtuosa. La fotografia, dopo averli perduti, si riprendeva il tempo, la profondità, l’intensità.

Se un giorno capire il mondo e noi stessi (o almeno provarci) tornerà di moda, la fotografia salverà i giornali; forse un sogno, forse utopia, forse chissà. Nel frattempo, per favore, non svegliatemi.

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