Mentre nei palazzi della politica l’incertezza regna sovrana, nelle stanze dell’alta finanza c’è chi si muove come se i giochi fossero già fatti, scommettendo su un futuro governo in cui Pd e Forza Italia non avranno voce in capitolo. O almeno non abbastanza da poter minimamente riproporre gli effetti del Patto del Nazareno. Lo testimoniano tempi e modi del sacco in corso su Telecom Italia (Tim): all’indomani delle elezioni la corsa a mettere in un angolo l’aggressore francese dei Berlusconi che di Tim è il primo azionista, Vincent Bolloré, ha subito un’accelerazione che ha davvero pochi precedenti. Come se ogni giorno, da qui alla nascita del nuovo governo, fosse l’ultimo disponibile per mettere in sicurezza le aziende di Arcore. E al tempo stesso chiudere in cassaforte un’infrastruttura strategica e delicata come il primo gruppo italiano di telefonia, che pure sarebbe un’azienda privata con quasi 60mila dipendenti.

L’urgenza è stata tale che in meno di un mese l’assediante si è ritrovato assediato e sotto scacco: tenere il punto su Telecom significa ammetterne il controllo e, quindi, dover scegliere tra il gruppo di telefonia e Mediaset. Non tenerlo avrebbe lo stesso effetto. Ma per Bollorè, già fiaccato in patria dalle inchieste sull’amico Nicolas Sarkozy, la partita ha senso se le due cose stanno insieme. E ora che gli amici di Berlusconi, e del mondo che ha rappresentato, lo hanno costretto a prendere un sentiero con poche alternative, non gli restano che gli esperti di governance e di cavilli legali per compilare le carte bollate. O, almeno, questo è quanto emerge dagli ultimi bollettini di guerra che da qualche giorno si susseguono vorticosamente uno via l’altro.

L’assedio a Vivendi è iniziato a urne ancora calde quando, con tanto di benedizione del ministro uscente Carlo Calenda, è ufficialmente sceso in campo Elliott, il fondo americano che in passato ha già tolto le castagne dal fuoco a Fininvest, finanziando l’acquisto del Milan da parte del cinese Yonghong Li. E scegliendo come suo rappresentante nel cda della squadra rossonera Paolo Scaroni, un manager di ascesa socialista, poi gradito a Silvio Berlusconi che gli aveva affidato prima l’Enel e poi l’Eni con un ruolo che gli è costato una nuova inchiesta giudiziaria per corruzione, questa volta internazionale. Fresco di acquisti importanti di titoli Tim, il socio attivista Elliott che per la rete in fibra ha già preso contatto con la Cassa Depositi e Prestiti, ha immediatamente contestato la gestione francese, mettendone a nudo i conflitti di interesse per poi chiedere la revoca di sei consiglieri di emanazione transalpina e l’integrazione del cda con nomi di suo gradimento, una lista che ha tirato fuori vecchie punte di diamante dei poltronifici di Stato e affini. Una mossa strategicamente impeccabile: per difendersi Vivendi sarebbe dovuta andare alla conta dei voti in assemblea rischiando di dimostrare senza più dubbio alcuno di avere il controllo dell’ex monopolista come già sostenuto dall’Agcom che in tal caso impone ai francesi la scelta tra Telecom e Mediaset. Senza contare lo spiacevole risvolto economico già messo in evidenza dalla Consob per la quale in caso di controllo acclarato Vivendi dovrebbe consolidare l’enorme debito (33 miliardi lordi) di Tim.

Per aggirare l’ostacolo, il raider bretone ha cercato di sparigliare le carte con le dimissioni dei suoi sei consiglieri più due indipendenti che hanno provocato la decadenza del consiglio Telecom da rinnovare poi nell’assemblea del 4 maggio. Detto fatto, l’operazione è andata in porto nella riunione del 22 marzo. Ma i conti sono stati fatti senza l’oste. Cioè il collegio sindacale di Telecom Italia, già avverso ai francesi sul progetto di creazione di una pay tv fra Tim e la controllata Vivendi Canal Plus. Con una mossa decisamente inusuale i sindaci non solo hanno ignorato le dimissioni dei consiglieri, ma hanno anche intimato al cda di integrare entro il 9 aprile l’ordine del giorno dell’assemblea del 24 con la revoca dei consiglieri Vivendi e la richiesta di nomina dei sei amministratori graditi ad Elliott. Cioè Fulvio Conti, il manager che Berlusconi scelse nel 2005 per guidare l’Enel, il direttore generale del costruttore Salini Impregilo Massimo Ferrari, l’economista consigliere di Terna (dopo Ansaldo Sts) Paola Giannotti De Ponti, l’ex direttore generale Rai e prima ad di Wind, Luigi Gubitosi, il banchiere Dante Roscini e, infine Rocco Sabelli, già direttore di Tim oltre che amministratore dell’Alitalia – Cai dei Capitani coraggiosi dello stesso Berlusconi.

Detta in altri termini, il collegio sindacale ha chiuso fuori dalla porta il nominando cda gradito all’azionista di maggioranza, Vivendi, spianando invece la strada a quello scelto da Elliott, che di Telecom ha solo il 5,7 per cento. La proposta del fondo andrà quindi in assemblea il 24 aprile per il voto e, in caso di vittoria, i suoi rappresentanti prenderanno possesso della stanza dei bottoni, entrando nel board di Telecom al posto dei francesi. Almeno fino all’assemblea successiva di maggio, ammesso che ci sia, anche se al momento non è escluso che possano restare fino a fine mandato. Un epilogo simile sarebbe però inaccettabile per Vivendi che si troverebbe fuori dal consiglio d’amministrazione, nonostante la società francese sia il maggiore azionista di Tim con il 23,9% del capitale. Di sicuro, però, è quello che si aspetta Elliott che in una nota diramata mercoledì 28 in serata ha escluso una seconda assemblea in caso di vittoria, auspicando il rapido avvento di “un Consiglio veramente indipendente“.

Come se non bastasse, per le manovre nel consiglio Telecom, il socio francese è anche finito nel mirino di Consob che, già prima dell’esposto di Elliott, aveva acquisito le il verbale della riunione del 22 marzo nell’ambito delle sue attività ispettive sulla corretta comunicazione al mercato. Sorvegliato speciale dell’Agcom per il possesso contemporaneo di pacchetti ingenti in Telecom e Mediaset, Bollorè è letteralmente accerchiato. L’ultimo spiraglio restano le vie legali per arrivare a rinnovare l’intero consiglio il prossimo 4 maggio ed evitare così di mollare la presa su una società in cui sta perdendo più di un miliardo e mezzo. Ma l’operazione non è facile. Anche perché, intanto, in assenza di un governo che si muova su Telecom, il fronte italiano si sta compattando attorno ad Elliott con il contributo di Assogestioni. Gli interessi di Tim e dei suoi stakeholder (dipendenti, clienti e piccoli risparmiatori, oltre ai contribuenti tutti), come sempre, restano in secondo piano.

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