Il terzo principio della dinamica, una legge della fisica, comporta che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. E così è nella “guerra delle spie” tra la Russia e l’Occidente: una dopo l’altra, vengono giù le caselle del domino delle espulsioni di diplomatici di Mosca; e, poi, arrivano le espulsioni di diplomatici da Mosca. In questi casi, non vale il principio del porgere l’altra guancia, bensì quello, meno evangelico, ma più globalizzato, dell’occhio per occhio, dente per dente. Per cui, tanti espulsi di qua – un centinaio, finora – ne provocano altrettanti di là.

E’ un match a somma zero, la cui logica e le cui cause non sono convincenti: la drammatica vicenda di Serghiej Skripal e di sua figlia Yulia sembra un paravento dietro cui nasconderle. Quel che resta è un inevitabile inasprimento dei rapporti Est-Ovest, in un clima da nuova Guerra Fredda.

Le guerre delle spie sono come le guerre dei dazi: non le vince mai nessuno e, a conti fatti, anche quando finiscono pari e patta, ci perdono sempre un po’ tutti. Peccato che il presidente Donald Trump ci giochi volentieri, nel segno di “make America great again” e di qualche calcolo di politica interna, anche se, in questi casi, più si spara alto alto più si ammette la propria impotenza. Se la May o Trump privano, da un giorno all’altro, di una ventina o addirittura di una sessantina di diplomatici lo staff russo a Londra o a Washington, vuol dire che sono disposti a privarsi di altrettanti elementi nei loro staff a Mosca. Il che equivale ad ammettere che i rispettivi apparati diplomatici – e/o spionistici – sono ipertrofici.

Le decisioni di Trump, le più dure finora prese dal presidente “eletto da Putin” – è la tesi sottintesa al Russiagate – nei confronti del Cremlino, innescano una sequela di adesioni europee e non solo, convinte da parte ucraina e baltica, più o meno riluttanti da parte dei maggiori Paesi Ue. L’Italia, con due espulsioni, devia dalla sua linea di maggiore apertura alla Russia rispetto a molti partner.

Sta a vedere che, per andare dietro a Trump, alla May e alle loro ubbie, ci giochiamo un ventennio di rapporti privilegiati con la Russia post-sovietica, costruiti sulle solide basi dei rapporti già buoni che avevamo con la Russia sovietica: l’Italia, il Paese del più grande Partito comunista occidentale, il Pci; della compagnia energetica che, in nome dello sviluppo – nazionale e del Terzo Mondo – rompeva le scatole alle Sette Sorelle del petrolio occidentale, l’Eni; e del grande capitalismo che investiva nel blocco comunista, a Togliattigrad, la Fiat degli Agnelli e di Vittorio Valletta.

Dopo il crollo del comunismo, fra i leader italiani è stato soprattutto Silvio Berlusconi a impegnarsi perché i rapporti con la Russia prima di Ieltsin e poi di Putin fossero buoni: import di energia ed export, tra l’altro, di prodotti agro-alimentari, oltre che di macchinari e lusso – fin quando il petrolio era su e la Russia si sentiva ricca.

Allora, è di nuovo guerra, sia pure fredda, con la Russia? Oppure è una pantomima che non lascerà tracce, e che magari provocherà ferite nella coesione dell’Occidente? Se non sono chiare le cause, neppure le conseguenze lo possono essere. La mossa di Trump può essere, in qualche modo, effetto del rinnovo in senso muscolare della sua squadra di esteri e sicurezza, con l’arrivo di Mike Pompeo e di John Bolton. Ma potrebbe pure essere il contrario: il presidente s’è dato una squadra muscolare perché preparava un’offensiva anti-Russia.

Scommetto che, per scoprirlo e capirlo, il Cremlino ha già sguinzagliato le sue spie negli Stati Uniti.

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