Twitter non rispetta “i diritti umani delle donne”: è la conclusione del report di Amnesty International#ToxicTwitter: violenza e molestie online contro le donne” pubblicato oggi, nel giorno del 12esimo compleanno del social. È il 21 marzo del 2006 quando il fondatore Jack Dorsey consegna alla storia il primo Tweet. Twitter ha oggi oltre 330 milioni di utenti attivi al mese. Il punto è che l’azienda “non risponde in maniera adeguata, tempestiva e trasparente alle segnalazioni di molestie on line”, spiega a ilfattoquotidiano.it Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “I meccanismi di segnalazione sono insufficienti. Ed è preoccupante che non pubblichi i dati disaggregati sul livello di molestie on line”.

Il social ha più volte affermato che “sta dalla parte delle donne in ogni parte del mondo”. Un’affermazione “vuota”, dice Amnesty. E Jack Dorsey, cofondatore e Ceo di Twitter, ha recentemente chiesto aiuto, impegnandosi a rendere la compagnia pienamente trasparente: gli utenti hanno tempo fino al 13 aprile per inviare le loro proposte per migliorare la “salute” delle conversazioni sulla piattaforma.

Tante sono state nel tempo le promesse di “pulizia”, spiega Azmina Dhrodia, ricercatrice di Amnesty su Tecnologia e diritti umani. Eppure “molte donne quando aprono Twitter trovano minacce di morte e stupro e offese razziste od omofobe”. Nella corrispondenza tra AI e Twitter, il social rimanda al mittente le conclusioni del report. “Non possiamo cancellare odio e pregiudizio dalla società”, si legge in una lettera del 15 marzo scorso tra Twitter e Amnesty. L’azienda spiega anche di aver fatto oltre 30 cambiamenti negli ultimi 16 mesi per migliorare la sicurezza e aver aumentato il numero delle azioni intraprese contro i tweet molesti. Ma non può “fornire informazioni su come gestisce le segnalazioni”, perché “gli strumenti per segnalare sono spesso usati in modo inappropriato”. “Non stiamo chiedendo a Twitter di risolvere il problema dal punto di vista sociale e culturale ”, replica Noury. “Ma in termini di diritti umani quella è una piattaforma su cui le donne ritengono di trovare spazio, e se questo spazio non è sicuro sono voci che vengono zittite”. Il 76% delle donne intervistate da Amnesty lo scorso anno che avevano subito molestie e intimidazioni su un social avevano cambiato il loro comportamento online, rinunciando – nel 32% dei casi – a postare le loro opinioni su determinati argomenti.

“Se a una donna la chiamano puttana, a me chiamano puttana negra”, racconta la giornalista statunitense Imani Gandy. Ad essere prese di mira sono soprattutto, secondo Amnesty, le donne di colore, appartenenti a minoranze etniche o religiose, Lgbti, le persone di genere non binario e le donne con disabilità: “Persone già marginalizzate vengono tenute fuori dalla conversazione pubblica”. Guai poi a parlare di temi come aborto e diritti riproduttivi. “Quando ho iniziato a parlare di aborto, l’abuso su Twitter è andato a un livello ancora più profondo”, racconta l’attivista americana Renee Bracey Sherman. “È il problema profondo di quanto la supremazia bianca e la misoginia siano davvero incorporate nella nostra cultura”.

“I social media sono ormai usati per propagandare odio in dosi massicce”, dice Riccardo Noury. “Se avessimo intervistato donne italiane – di potere e non – il risultato sarebbe stato in linea con quello internazionale”. L’esempio di Laura Boldrini “è evidente: una persona cui notorietà e potere non hanno fornito tutela. Anzi, forse è stata ancora più esposta proprio per la sua posizione”. Un fenomeno che “preoccupa in prospettiva”: i commenti on line “sui casi di violenza sessuale o femminicidio cominciano a presentare una solidarietà o indignazione selettiva in base a etnie della vittima o dell’assassino. E questo si riverbera sulle piattaforme: quando si comincia a selezionare a chi esprimere solidarietà o condannare, emerge tutto il linguaggio xenofobo o predatorio”.

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