Mentre Vladimir Putin assapora non una vittoria, bensì due – quella che lo issa per la quarta volta alla guida della Russia e quella contro la Gran Bretagna che ha abbaiato, ma non l’ha morso – vale la pena ragionare sopra il caso dell’ex spia russa Sergej Skripal (già coinvolto in uno scambio di 007) e di sua figlia Yulia, trovati domenica 4 marzo avvelenati da un potente agente nervino su una panchina di un centro commerciale di Salisbury, a sud ovest di Londra, nella contea del Wiltshire. Non stiamo qui a ripercorrere tutte le fasi della sconcertante e feroce vicenda, né a denunciare l’ennesima dimostrazione di una spregiudicata missione condotta da misteriosi sicari che hanno adottato misure, diciamo così, provocatoriamente non convenzionali. Sergej e Yulia sono tra la vita e la morte.

L’attentato lancia due messaggi ben decifrabili. Il primo, diretto ai “nemici” di Putin e della Russia, ai traditori insomma, è semplice quanto micidiale: “Possiamo colpirvi dove e quando vogliamo”. Il secondo è una sorta di codicillo del primo che allarga l’orizzonte dei potenziali bersagli: “State attenti, non potrete crescere i figli e godervi la ricca pensione all’estero, come fanno gli amici leali di Putin”. Ma c’è anche un effetto collaterale, ossia lo “scopo” dell’attentato, che va oltre l’apparente e scontato obiettivo di eliminare il sospetto delatore (una spia resta per sempre una spia, è l’etica dell’agente segreto di scuola russa. chi abbandona la “casa madre” è un traditore e va punito. Sempre). Perché mai un personaggio abile e scaltro come Putin, sempre che sia stato lui a dare l’ordine di agire, ha aspettato la vigilia dello scrutinio presidenziale, per attuare un piano così clamoroso e con prevedibili (ed altrettante scontate) reazioni? Che senso ha essere indicato a furor di popolo (e di popoli) come l’odioso mandante, privo di scrupoli secondo lo stereotipo che affligge chi è stato uno spione, come lo è stato Putin, suscitando uno tsunami di internazionale indignazione?

Non avrebbe un senso logico, se dovessimo pensare dal “nostro” punto di vista. Dobbiamo invece provare a metterci dall’altra parte, o, come si suol dire, nella testa di Putin. E scoprire che c’è una regia precisa, dietro il “caso nervino”: le accuse contro il Cremlino e le rappresaglie diplomatiche vengono vissute in Russia come un attacco dell’Occidente, una nuova mossa in una guerra mai dichiarata, il cui fine – cito a spanne il Putinpensiero – è la graduale estensione dell’Europa (e della Nato) sino ai confini russi. Ma i russi non possono continuare a vedere ostacolata la propria influenza geopolitica. E vedere minacciati i propri interessi strategici. E’ la sindrome della Gran Madre Russia assediata. Non è per questo profondo sentimento nazionale che ha riportato la Crimea all’ovile, strappandola all’Ucraina, violando i principii dell’Europa e del diritto internazionale? La sua annessione rilanciò la popolarità di Putin, incrinata dalle grandi manifestazioni di protesta delle opposizioni (l’inverno del 2012). I russi si schierarono compatti col loro presidente che alimentò la retorica bellica ed assunse un atteggiamento più deciso, meno disponibile con l’Occidente.

Sta succedendo lo stesso in questi giorni. Guarda caso, alla vigilia del voto. Un doping propagandistico. Il refrain è noto. Lo enunciò qualche anno fa (ottobre 2014) lo stesso Putin, durante uno degli incontri al Valdai Discussion Club, la Davos russa: “La Guerra Fredda si è conclusa da anni, ma non è mai stato siglato un trattato di pace, tantomeno degli accordi chiari, di cui ci sarebbe davvero bisogno”. Washington si è autoproclamata vincitrice, ed avrebbe agito di conseguenza, unicamente cioè sulla base dei propri interessi: “Forse il modo in cui gli americani gestiscono la loro leadership – testimonia uno che era lì ad ascoltarlo e ad intervistarlo (il giornalista tedesco Hubert Seipel) – ovvero a partire da questa particolare percezione di sé, può essere per noi una benedizione”, disse un sarcastico Putin, “forse la loro ingerenza nelle politiche mondiali ha portato pace, progresso, crescita e democrazia, e noi non dobbiamo far altro che metterci comodi  e rilassarci?”. Poi spiega in modo “popolare” il concetto: “Conoscete senz’altro il vecchio detto: ‘Ciò che è lecito a Giove non è lecito al bove’. Forse può andar bene per un bue, ma un orso non può adeguarsi. Per noi l’orso è il re della taiga: non può vivere in un’altra area climatica, ma non può nemmeno lasciare il suo regno a qualcun altro”.

Infatti gli inglesi non sono caduti più di tanto nel tranello. Hanno inscenato una reazione ferma ma non definitiva. “Un atto cinico commesso da un regime pericoloso”, ha detto l’altro giorno il portavoce del Foreign Office, soppesando le parole per stigmatizzare non solo il tentativo di ammazzare l’ex spia russa passata agli inglesi, e sua figlia, quanto avere utilizzato il Novitchok, una sostanza altamente tossica prodotta in Russia, ossia un agente nervino in territorio britannico, a Salisbury. Col rischio di contaminazione (è toccato ad un poliziotto). Parole dure. Ma non un ultimatum. Lo stesso Foreign Office ha sottolineato che le relazioni diplomatiche con la Russia non verranno interrotte. In modo più rozzo, la pragmatica Theresa May, davanti ai deputati, ha detto: “Non è nel nostro interesse nazionale troncare del tutto ogni dialogo, affermando che dopo le speranze suscitate dalla Russia dell’immediato dopo Urss, “è tragico che il presidente Putin abbia scelto di seguire questa via”.

L’opinione della May avrà lasciato indifferente Putin, come le espulsioni dei diplomatici, cui Mosca ha risposto con la cacciata di 23 diplomatici britannici, l’annunciata chiusura del British Council e il no al consolato di Pietroburgo. Il solito teatrino delle ritorsioni. Gli affari continuano. Londra è la piattaforma finanziaria più utilizzata dai russi. Nessuna misura restrittiva è stata presa nei confronti delle proprietà finanziarie ed immobiliari allocate a Londra dagli oligarchi filoputiniani, dai loro familiari ed amici. Nessuno si stupisce più di tanto di come viene uccisa una spia doppiogiochista, la quale sa che fine l’attende, prima o poi. È una partita sporca e Putin è un professionista dell’ombra. Ed ama la mnogohodovochka, la serie delle mosse che serve a confondere l’avversario.

Il documento unitario di condanna nei confronti di Mosca da parte degli inglesi, di Macron, di Trump e della Merkel è stato ostentatamente ignorato da Putin in visita a Sebastopoli e Sinferopol, in Crimea. Quel che conta è l’ampiezza della vittoria elettorale e il livello di partecipazione: per determinare un successo popolare, importante, credibile, e confezionargli la silhouette nella forma – mica nella sostanza… – di una competizione democratica, quando invece sembra proprio un casting. Quanto avrà contribuito “l’agente nervino”?

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