Nessuno potrà mai cancellare la vergogna delle sofferenze inflitte a migliaia di cani beagle detenuti a fini di sperimentazione nell’allevamento di Green Hill. Ma, grazie anche all’impegno delle associazioni animaliste – in primo luogo della LAV – oggi possiamo sperare che fatti simili non si ripeteranno più. Proprio sull’onda dei fatti di Green Hill, infatti, nel 2014 il nostro paese ha vietato finalmente l’allevamento di cani per la sperimentazione.

E altrettanto finalmente, pochi giorni fa la Cassazione, terza sezione penale, ha confermato in via definitiva la condanna, inflitta nel 2015 dal Tribunale di Brescia e avallata nel 2016 dalla Corte di appello, di un anno e 6 mesi di reclusione a carico di Bernard Gotti e Ghislane Rondot, co-gestori di “Green Hill 2001”, e di un anno di reclusione a carico di Roberto Bravi e Renzo Graziosi, rispettivamente direttore e veterinario dell’allevamento, accusati di maltrattamento e di uccisione di animali. Con sospensione dell’attività e confisca dei cani.

Per chi non ricorda i fatti, è la Cassazione stessa a precisare come in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – senza necessità e privando i 2639 cani detenuti dei loro pattern comportamentali – abbiano sottoposto i cani a pratiche insopportabili per le loro caratteristiche etologiche. Ad esempio la tatuatura con aghi, il taglio delle unghie fino alla base con relativa rottura dei vasi sanguigni; più l’aggravante dell’aver causato la morte di alcuni beagle.

E, oltre a questo, sono accusati – in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e senza necessità, se non quella di liberarsi di animali non più vendibili sul mercato – di avere cagionato la morte mediante eutanasia di alcuni cani. A questo proposito vale la pena di ricordare che, nel processo di primo grado, il pubblico ministero aveva dimostrato l’esistenza di un “sistema Green Hill”, ovvero la pratica aziendale di uccidere i cani affetti da patologie per contenere i costi e perché non erano più idonei allo scopo: ad esempio cuccioli uccisi perché affetti da dermatite, un problema risolvibile con adeguate cure e alimentazione idonea, ma che ne pregiudicava l’utilizzo come cavie. Elevata la mortalità dei beagle: tra il 2008 e il 2012 sono stati contati ben 6023 decessi, un numero esorbitante, a fronte dei 98 decessi registrati nel periodo successivo al sequestro, di cui circa una cinquantina quando i cani erano ancora nell’allevamento in attesa di essere autorizzati al trasferimento. Costava per loro di meno farli riprodurre in continuazione e sostituire così i “difettosi”.

Sotto il profilo giuridico, va segnalata l’importante affermazione della Cassazione che la sperimentazione su animali non può andare oltre certi limiti sfociando in comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche. E a questo proposito ricorda che le ispezioni nell’allevamento del periodo tra il 2010 ed il 2012 avevano accertato una serie di violazioni e che, in particolare, “il 18 luglio 2012 erano state accertate e analiticamente descritte una serie di anomalie relative alla temperatura dei capannoni, alle condizioni igieniche dei luoghi, all’inadeguatezza dell’alimentazione, alla mancata somministrazione di farmaci, alla provocata deprivazione sensoriale degli animali”.

Né si può dire che gli imputati non ne fossero consapevoli. Dice, infatti, la Cassazione che “si è trattato di precise e consapevoli scelte decisionali di violazione delle corrette regole di tenuta dell’allevamento adottate da soggetti pienamente dotati della competenza tecnica per comprenderne le conseguenze negative sugli animali. E il dolo degli imputati emerge con chiarezza anche dalla corrispondenza scambiata fra gli stessi, che costituisce un elemento di decisivo riscontro”. Insomma non si è trattato di un caso ma di una scelta precisa di “politica aziendale”, che oggi viene definitivamente condannata.

Ma c’è ancora tanto da fare. Green Hill non può essere un punto di arrivo ma di partenza.

Non basta che la legge e la Cassazione ci abbiano ricordato che gli animali sono esseri viventi e senzienti come noi. Bisogna che questa elementare verità entri finalmente nella cultura collettiva. E, certo, la strada è lunga se, come si legge nella sentenza, di solito chi doveva fare i controlli sull’allevamento, invece di accertare le effettive condizioni degli animali, si limitava ad un “mero disbrigo di pratiche burocratico-amministrative”.

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