La mattina del 5 marzo l’Italia si svegliò sgranando gli occhi: dalle urne elettorali saltava fuori il risultato che nessuno avrebbe mai immaginato. Ilvo Diamanti fu colto da un irrefrenabile moto di sconforto. Subito seguito dal collega Fabrizio Masia di Emg che tentò di farla finita usando come cappio una delle sue più brutte cravatte color prugna e can che scappa, acquistata per un euro sui banchetti della fiera di Sant’Agata. Più saldo di nervi l’altro sondaggista di Palazzo – Roberto Weber – fuggiva precipitosamente dalla natia Trieste per riparare in Tanzania; dove già si erano premurati di trovare rifugio gli amici e clienti Claudio Burlando e Massimo D’Alema, mimetizzati da iene del lago Manyara. Infatti la lunga sequela di catastrofi biografiche aveva reso sensibili le antenne dei due post-comunisti, addestrandoli a prefigurare imminenti tsunami elettorali.

Così non era stato per Matteo Renzi, la cui “iomania seriale” gli impediva la presa d’atto di essere il più odiato dagli italiani, che avevano trovato a dir poco libidinoso non votarlo in massa. Ma il perdurante auto-innamoramento narcisistico escludeva la possibilità che il giovanotto uscisse di scena strafogandosi nel pop corn, come in una Grande Bouffe da provincia toscana americanizzata. Semmai si trattava di investire utilmente la propria notorietà, seppure da re Mida alla rovescia, in qualche business remunerativo. La sola chance fu di cambiare aria partecipando come guest star a una riedizione di Happy Days in lingua hindi, nel più scalcinato set di Bollywood.

D’altro canto cosa poteva sperare di più, visto che i voti al Pd non avevano superato quota 5%? Tanto che neppure si erano salvati i collegi blindatissimi riservati a Maria Elena Boschi e Raffaella Paita. Ora per entrambe si prospettava una nuova carriera da commesse dell’Upim. Più complicata la riconversione per la ministra Pinotti rimasta a spasso, a cui pietosi amichetti della lobby delle armi prospettavano l’impiego da vivandiera in un team di private soldiers operanti sulla scena libica.

Nel loro brusco risveglio, ai Liberi e Uguali ormai a spasso (con il loro 1%) non restava che un ritorno precipitoso all’ovile. Pier Luigi Bersani aveva la pompa di benzina a Bettola ad attenderlo, mentre il lucano Roberto Speranza poteva mettere a frutto la parlantina quale accompagnatore turistico di visitatori ai Sassi di Matera. Difficile il caso di Stefano Fassina, che però aveva maturato una buona professionalità come carenante di scialuppe di salvataggio per i naufragi a sinistra e quindi poteva occuparsi nel settore cantieristico della nautica da diporto. Il leader Pietro Grasso mise a frutto l’esperienza fatta al servizio dei boss di LeU come capo cameriere in una trattoria del Testaccio specializzata in pasta alla carbonara.

E Berlusconi? Il suo 8% faceva crollare l’intero castello di carte e balle. Anche per lui c’era Hammamet ad aspettarlo. Ma pure un branco di palestinesi pronti a presentargli il conto All Iberian – Arafat. Da cui si salvò offrendo le terga ossute dell’avvocato Ghedini. Tra quegli ossessi dell’Olp, mimetizzato da tuareg, c’era pure Matteo Salvini, intenzionato a far pagare all’odiato Berlusca il misero 7% incassato dall’infelice apparentamento. Per sua sfortuna venne scambiato per un vero extracomunitario e bastonato a sangue da un gruppo di leghisti in gita.

Il povero Di Maio doveva aver presagito la mala parata già dal fatto che alle parlamentarie i suoi stessi Cinquestelle lo avevano segato con appena 480 preferenze. Sicché, invece di fare il premier dovette accontentarsi di un posto da bagnino a Posillipo: comunque un bello scatto professionale rispetto allo steward da stadio.

Insomma, questi i primi effetti del successo di Potere al Popolo; grazie al 75% dei voti ottenuti. Esito interpretato da Massimo Cacciari come effetto del radicamento territoriale dei ragazzi di Je so’ pazzo, mentre il politologo bolognese Piero Ignazi lo attribuiva alla sopravvivenza di una struttura partitica, garantita dalla cultura degli spezzoni di Rifondazione Comunista.

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