Siamo nel 1971, Katharine Graham è la prima donna alla guida del The Washington Post e non per scelta, ma a causa della scomparsa del marito. In una società intrinsecamente maschilista, la Graham porta avanti le sue battaglie, tra famiglia e lavoro, tra passione e giornalismo puro. Sì, perché è la proprietaria del Post, colei che dovrebbe restar fuori dalle scelte editoriali, ma la decisione più importante spetterà proprio a lei. A farle da mentore una voce fuori dal coro, quella di Ben Bradlee, il burbero direttore da lei scelto per il suo giornale.

Nonostante i due siano molto diversi per trascorsi e approccio alla vita, stanno per unire le forze contro tutti: contro le banche, contro i membri del consiglio dell’azienda e persino contro la Casa Bianca, che a quell’epoca ospitava un più che agguerrito Nixon, pronto a tutto pur di imbavagliare l’informazione. Che si tratti del matrimonio di sua figlia o dell’inchiesta su crimini di guerra non importa, l’importante è avere il controllo su cosa esce e cosa non esce sulle colonne dei quotidiani.

L’indagine che il Post intraprenderà, avviata dopo un primo articolo pubblicato dal New York Times, aprirà una nuova frontiera del giornalismo, che porterà fino alla richiesta di impeachment e alle dimissioni di Nixon per lo Scandalo Watergate. Il loro coraggio è alla base della prima grande scossa nella storia dell’informazione con una fuga di notizie senza precedenti, che ha rivelato al mondo intero la sotterranea copertura di segreti governativi riguardanti la Guerra in Vietnam, raccolti in 7000 pagine di uno studio del Dipartimento della Difesa degli States che va dal 1945 al 1967.

Steven Spielberg, un maestro indiscusso nel mettere in scena mondi fantastici che hanno fatto viaggiare l’immaginazione di intere generazioni, oggi torna in sala con una storia vera. Ma questo non è solo un film storico, è principalmente un film politico. In un periodo in cui la libertà di stampa è costantemente vessata da un’amministrazione, quella di Trump, che mette in bella vista i muscoli pur di zittire i media, The Post ci ricorda quant’è importante lavorare per un fine superiore, in questo caso la verità. Per farlo bisogna mettersi in gioco e sfidare ogni avversità, a partire dalla disparità di genere che a quel tempo, come ancora oggi, crea un dislivello malsano ai vertici delle aziende.

La storia è affidata a due mostri sacri del calibro di Meryl Streep, nuovamente candidata all’Oscar per questa intepretazione e Tom Hanks, per la prima volta insieme sul grande schermo. Spielberg per realizzarlo ha deciso di interrompere la produzione di The Kidnapping of Edgardo Mortara, un altro suo progetto, questo per non perdere un solo giorno della risonanza dovuta al momento buio in cui si ritrovano oggi gli Stati Uniti.

Il racconto infatti è legato alla vicenda dei Pentagon Papers, è ambientato più di cinquant’anni fa, ma risulta di un’attualità disarmante. La lotta contro le istituzioni per garantire la libertà di informazione e di stampa è il cuore del film, dove la scelta morale e l’etica professionale fanno riscoprire un dimenticato senso del dovere, che al giorno d’oggi dovrebbe essere d’ispirazione per i giovani giornalisti o aspiranti tali.

La stampa serve chi è governato, non chi governa” recita la decisione della Corte Suprema che “libera” il NYT e il Post dall’assalto di Nixon. Quando i giornali avranno questa frase appesa sopra la scrivania di ogni giornalista, la stampa rinascerà. Ecco perché The Post, oltre a essere un bel film, è un film necessario.

La Repubblica tradita

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