Valerio De Stefano* e Antonio Aloisi**

La rissa sul numero di posti di lavoro persi e creati per via della trasformazione digitale rischia di distrarre istituzioni, analisti e parti sociali da un tema molto più rilevante: la qualità del lavoro. Per capire come anticipare i trend, non ci si può affidare alle sole statistiche, è importante concentrarsi sull’applicazione responsabile delle regole esistenti, oltre che sull’ideazione di nuovi schemi legali che rispondano all’evoluzione delle modalità in cui si rende la prestazioni lavorativa.

Sul fronte del “futuro del lavoro”, negli scorsi mesi, le città europee sono state il teatro di una serie di eventi legati da un filo rosso: a Londra, il tribunale d’appello del lavoro ha aderito al giudizio di primo grado, confermando che i due autisti Uber che avevano fatto causa alla società lamentando condizioni di lavoro diverse da quelle previste nel contratto non sono lavoratori autonomi, in senso apparentemente opposto, sempre nel Regno Unito, un comitato governativo ha stabilito che i corrieri di Deliveroo non possono esercitare diritti come la contrattazione collettiva, mentre a Bruxelles, Bologna e Brighton i fattorini hanno scioperato per rivendicare condizioni di lavoro meno dure, così come è successo agli operai dei magazzini del colosso Amazon in Germania e in Italia.

Unendo i puntini di queste vicende si delineano le dimensioni di un montante disagio nei confronti di modelli contrattuali precarizzanti che puntano su rapportistabilmente temporanei, al fine di tagliare i costi fissi e sbaragliare i concorrenti. D’altra parte, un’analisi accorta di diversi indici di qualità di un’occupazione, quali salario e benefit, condizioni contrattuali, conciliazione dei tempi di lavoro e svago, avanzamento di carriera e formazione, e rappresentanza degli interessi collettivi, ci restituisce un dubbio atroce. Sembra in parte tradita la promessa di liberazione che era stata implicitamente formulata con l’avvento delle prime tecnologie che hanno consentito di ripensare i moduli organizzativi e le dimensioni esistenziali del lavoro.

Infatti, le condizioni del mercato del lavoro dei paesi europei vengono da tempo percepite come inique e determinano forte scontento sociale, che si traduce in un ampio sentimento di rivalsa verso la classe al potere, con esiti elettorali talvolta imprevedibili e persino controintuitivi. Per reagire alle profonde tensioni che sconquassano gli stati membri, la Commissione – insieme al Parlamento – ha avviato un’iniziativa strutturale in favore della messa in sicurezza del “pilastro dei diritti sociali”. È facile leggere un’inversione di tendenza nelle priorità politiche e, dopo un biennio di sforzi – principalmente retorici – in vista della costruzione di un Mercato unico digitale, oggi in cima alle priorità dell’agenda di Bruxelles tornano i diritti dei lavoratori e le necessità dell’impresa.

Il 21 dicembre, la Commissione ha pubblicato la proposta per una direttiva in materia di condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili. Il messaggio lanciato non lascia spazio ad ambiguità: le nuove figure professionali meritano tutele più robuste. D’altra parte, la Corte di giustizia ha indicato una direzione chiara stabilendo che Uber non è un intermediario digitale, ma un operatore nel settore dei trasporti. Sebbene non affronti la questione dell’inquadramento degli autisti, il ragionamento dei giudici insiste sull’intensità del potere organizzativo esercitato dalla piattaforma. Il management fissa i prezzi, le condizioni dei veicoli e, più in generale, determina le modalità di lavoro. Si sbriciolano due argomenti: che la piattaforma si limiti a un abbinamento di domanda e offerta di corse, che i lavoratori svolgano un servizio indipendente in una condizione di piena autonomia.

Anche il dibattito casalingo è costretto a fare i conti con lo stato di salute del patto sociale alla base della nostra identità di cittadini. A domandarsi non quanto, ma quale lavoro vogliamo. Fare in modo che le condizioni di lavoro siano più stabili e prevedibili è una scelta politica, prima ancora che aziendale. Agli attori pubblici, il compito di creare le basi perché il futuro del lavoro si riveli un ritorno al passato, né un salto nel buio. La questione centrale è come assicurare che le innovazioni tecnologiche e manageriali che, almeno all’apparenza, semplificano la nostra vita di consumatori esigenti non si realizzino a spese dei lavoratori a cui è affidato il compito di rendere “comodi” certi servizi. Serve tanta consapevolezza per fare in modo che, anche grazie alla rivoluzione digitale, si possano coniugare efficienza e diritti, flessibilità e sicurezza.

Non ci sono ricette segrete, governare le trasformazioni in modo rapido e ragionevole è un dovere a cui non ci si può sottrarre, se si vogliono accettare la sfide che il futuro ci lancia: aumentare la trasparenza degli algoritmi per abilitare una competizione “al rialzo”, garantire investimenti in politiche attive per “ricucire” percorsi discontinui di carriera, favorire ricerca e sviluppo affinché le imprese siano in grado di rendere efficienti i processi produttivi e i flussi distributivi, assicurare più sostenibilità nella filiera del consumo online che risponde a nuove esigenze e tendenze. È un’agenda ricca e ambiziosa, in netto contrasto con le peggiori intenzioni di chi vorrebbe ingabbiare l’innovazione, che merita tutti gli sforzi del decisore pubblico e delle parti sociali. D’altronde, nessun destino è ineluttabile.

* Valerio De Stefano insegna diritto del lavoro all’Università di Lovanio (KU Leuven), in Belgio. In passato ha studiato e insegnato presso l’Università Bocconi di Milano, ha fatto l’avvocato giuslavorista e ha lavorato presso l’organizzazione internazionale del Lavoro, un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra.

** Antonio Aloisi studia e insegna diritto del lavoro presso l’Università Bocconi di Milano dove sta completando un dottorato di ricerca sul lavoro tramite piattaforma. In passato, ha lavorato per l’ufficio di gabinetto del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e svolto attività di ricerca presso la Saint Louis University, negli Usa.

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